Cattivissimo me
I sogni son desideri, cantava Cenerentola. La fatina di T.J. è un metallaro incazzato che risponde al nome di Hesher. Nessuno sa chi sia realmente, da dove venga o dove stia andando. Si sa che c’è stato per i cocci che lascia e per quelli, più antichi, che mette a posto.
Per l’esordio nel lungometraggio, presentato al Sundance 2010, Spencer Susser ricorre a un espediente classico – l’estraneo misterioso che scardina gli equilibri e risolve i conflitti – rivestendolo convenientemente di indie-appeal. Difficile dire che cosa sia Hesher. C’è chi ipotizza una sorta di angelo, chi suggerisce un amico immaginario, di certo ha un dito medio al posto delle ali e combina casini piuttosto concreti. Come l’ospite di Teorema, scuote gli animi immobilizzati ma la verve con cui lo fa ricorda più il nonno di Little Miss Sunshine. Mentore atipico vestito da Cliff Burton, fiero dispensatore di parabole (anti)cristologiche, Hesher è piuttosto una (cattiva) coscienza, principio anarchico ed eversivo, pronto ad esplodere impunemente come un ordigno vendicatore. Al piccolo T.J., orfano di madre, insegna l’arte della deflagrazione, al suo inconsapevole autolesionismo oppone la cura di una violenza espressa, concretizzando il represso altrui nella catarsi dell’atto vandalico. In questo guru balordo e insensato, il ragazzo con la bicicletta trova uno stimolo di reazione, comunque più idoneo del padre ferito o della scuola praticamente assente, nonchè più efficace del gruppo di aiuto preposto ad accoglierne la testimonianza.
Nella sceneggiatura scritta a quattro mani con il regista di Animal Kingdom (David Michôd), Hesher è il fattore nichilista che poi si rivela costruttivo, alternativa diretta e traumatica ad un ambiente sottilmente crudele. L’aggressività passiva della rassegnazione, la ricerca del dolore fisico per esorcizzare il tormento interiore, sono le soluzioni socialmente accettate che operano una distruzione ben più profonda. Hesher le trascina alle estreme conseguenze fino a tramutarle in azioni eversive.
Non mancano dunque gli spunti importanti – l’inadeguatezza delle strutture designate ad accogliere i problemi reali – o i momenti particolarmente ispirati – l’auto come metafora del ventre materno e del lutto elaborato – ma abbondano le scene costruite ad hoc per strappare facili consensi e garantirsi la complicità dello specifico pubblico di riferimento. Da talentuoso autore di corti e videoclip, Susser conosce i segreti di un’estetica accattivante e sfrutta al meglio la colonna sonora a base di Metallica e Motörhead. Ma se accumula gustose bassezze per rifuggire dal patetismo poi lo sposa incomprensibilmente nel progredire verso il finale, con tanto di lacrime nella pioggia e corsa in ralenti di riconciliazione. Quello in cui eccelle senza ombra di dubbio è la direzione degli attori, da una dimessa e pur sempre splendida Natalie Portman – qui in veste anche di produttrice – alla prova ineccepibile del precoce Devin Brochu, perennemente in bilico tra angoscia e stupore. Tanto per l’una quanto per l’altro l’Hesher di Joseph Gordon-Levitt non sarà forse né un angelo né un amico ideale. Ma è l’unico ad esserci, ed è questo che conta.