In Wonderland
Che con il dominio incontrastato degli effetti speciali, della computer graphic e del 3D, il cinema hollywoodiano stia tornando sulla strada delle origini, verso un “cinema della mostrazione” più che “della narrazione”, è una teoria che rimbalza da tempo.
Troppo spesso l’estetica si esaurisce nello stupore, confezionando film dove tutto è più grande, più imprevedibile, più spettacolare, chiedendo allo spettatore di ammirare incredulo ciò che vede, a scapito di tutto il resto (soggetto, sceneggiatura, personaggi). Poi arriva Scorsese e compie un piccolo grande miracolo, saldando esplicitamente il cerchio. Con un film, Hugo Cabret, sotto tanti punti di vista imperfetto, eppure così denso, così appassionato da sotterrare senza troppe remore le perplessità. L’incipit di Hugo Cabret è quasi privo di dialoghi, nasce con un dolly impossibile nei cieli di Parigi, e disegna un piccolo universo brulicante di storie regalate agli occhi di Hugo, e di noialtri. Il piccolo Hugo è un orfano nella Parigi degli anni ‘30, vive dentro i muri di una gigantesca stazione, tra gli ingranaggi degli immensi orologi che si occupa di tenere sempre in ordine. Dall’altra parte del tempo, attraverso le enormi lancette che ticchettano, vede tutto. Un tutto che Scorsese mette in scena come fossero tante vedute da film dei Lumiere, o come le pantomime del primo cinematografo. Hugo osserva a bocca aperta, e noi con lui, incantati da un 3D che ha finalmente una ragion d’essere, concedendo a Scorsese movimenti di macchina imprevisti e inaspettate visioni. Come gli orologi che Hugo ripara, come l’automa che cerca disperatamente di aggiustare, il film di Martin Scorsese sembra un ingranaggio complesso di rimandi e citazioni, di piani che si incastrano, fino a quando il 3D cede il passo alla meraviglia. L’arrivo del treno alla stazione di La Ciotat: chi avrebbe mai detto che, a vederlo in tre dimensioni, ci saremmo emozionati ancora come quei primi fortunati spettatori del Boulevard du Capucines nel 1895? E che le fantasmagorie di Georges Méliès avrebbero saputo stordirci, di nuovo, che la magia ritrovasse nuova luce grazie alla rimessa in scena della sua creazione? Che avremmo potuto sentirci come Isabelle, la ragazza che legge tanti libri ma non è mai stata al cinema fino a che Hugo non la porta a vedere Safety Last! di Harold Lloyd, mentre tratteniamo il fiato guardando il protagonista appeso alle lancette del più grande orologio della stazione? Scorsese sa che il sense of wonder del cinema non scompare svelando il trucco, ma anzi trae forza dallo stupore di comprendere come sia possibile dare corpo e luce alla più sconfinata immaginazione. Scorsese sa che il più grande nemico del cinema è il tempo, che consuma la pellicola e digerisce la memoria, e per questo c’è un sottile filo di inquietudine nello svolgimento della storia di Hugo Cabret. Un’inquietudine necessaria per trovare il coraggio: di pretendere un cuore per l’omino di latta, di mettere in salvo la Storia (del Cinema) e la nostra sacrosanta e ineludibile esigenza quotidiana di meraviglia.
Hugo Cabret [Hugo, USA/Italia 2011] REGIA Martin Scorsese.
CAST Asa Butterfield, Chloë Grace Moretz, Ben Kingsley, Sacha Baron Cohen, Jude Law, Christopher Lee.
SCENEGGIATURA John Logan (dal romanzo La straordinaria invenzione di Hugo Cabret di Brian Selznick). FOTOGRAFIA Robert Richardson. MUSICHE Howard Shore.
Drammatico/Avventura, durata 145 minuti.
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