Ora d’aria
Un film duro, violento, soffocante, nero, e blu scuro più del nero. Eppure, all’uscita dalla sala, dopo Acab. All Cops Are Bastards, si respira.
Grazie a un’opera italiana che, finalmente, si sforza di illuminare una parte di verità, di scendere negli inferi del reale, lontana anni luce dai telefonini bianchi e dai loro isterici possessori. Fischiano già da tempo le polemiche, da destra e da sinistra, contro i celerini bastardi ma umani, troppo umani, disegnati da Stefano Sollima sui volti appropriatamente digrignati di Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro, Marco Giallini e (il sorprendente quasi esordiente) Domenico Diele. Materia che scotta, ed è giusto così. Materia che, nonostante le apparenze, rifugge gli schieramenti comodi, perché il magma rovente in cui si impastano il disagio e la rabbia non è cosa semplice o lineare. E si respira, guardando Acab, perché il regista di Romanzo criminale. La serie, grazie al cielo sembra comprendere cosa sia il cinema: competenza del linguaggio e ritmo, carrellate orizzontali inesorabili e montaggio serrato, fotografia a contrasto per dipingere una Roma che sa vivere solo di notte, anche quando è giorno. E una sceneggiatura che, sì, ogni tanto inciampa, ma si costruisce pezzo dopo pezzo in un percorso discendente verso l’annullamento delle contrapposizioni. Che sembrano così definite ed esatte a protagonisti e personaggi – ci sono le guardie e ci sono i ladri, ci sono gli sbirri e ci sono i fasci, i romeni, i negri, gli zingari, le zecche – ma si disgregano sotto i nostri occhi fino a svelarsi per quel che sono davvero: branchi, bande. “Uno da solo non vale una cazzo” spiega il Cobra/Favino alla recluta/Diele. E’ una fratellanza dal sapore arcaico e ancestrale, quella che unisce il gruppo di celerini (e, di contro, gli ultrà che si scagliano contro/tra di loro allo stadio, i ragazzotti di Casa Pound tutti uguali in divisa da skinhead anni 80), e che Sollima non ha paura di raccontare, di illustrare anche nei suoi aspetti più pericolosamente accattivanti. L’adrenalina, la paura che diventa furore, lo spirito da caserma che sembra unire più di ogni altra relazione, più di famiglie dissolte o, semplicemente, assenti. Più di ogni fede o ideologia o speranza. Come nella serie sulla banda della Magliana, Sollima non teme di rappresentare la violenza, anche nella sua veste più imprudente, quella che seduce e confonde. Chiede allo spettatore di pensare da sé, davanti a un corpo di polizia che assomiglia dannatamente a una curva d’ultrà. Corre il rischio. E noi respiriamo, finalmente, per un cinema che domanda intelligenza, esige elaborazione, chiede una ricerca testarda di comprensione, affondando il coltello (lo ribadiamo, con grande competenza del mezzo cinematografico) dentro la piaga purulenta della nostra violenta, disperata e disperante quotidianità. Aria nuova, come le parole del giovane celerino: “ho scelto di fare la guardia, perché volevo un lavoro onesto”. Disarmante e amara verità, sepolta e dimenticata sotto il sangue e i lividi di una guerra di routine, che ha smarrito da tempo i torti e le ragioni.