Film di guerra
ACAB è un film di guerra: una guerra tra poveri, combattuta nelle zone ombra della città eterna e con eserciti formati da soldati che provengono dagli stessi luoghi, che hanno avuto la stessa educazione e che hanno presto fatto i conti con la strada, la povertà, l’intolleranza, la mancanza delle istituzioni e la violenza, eserciti motivati dalla stessa rabbia e dalla stessa mancanza di prospettive.
ACAB sceglie di rappresentare questo conflitto dal punto di vista di uno dei due schieramenti, quello dei celerini, senza retorica e compiacimenti nel rappresentare la violenza, grazie ad uno stile sì molto ritmato, ma anche molto asciutto. Nel rappresentare i poliziotti viene evitato il manicheismo: non c’è l’esaltazione e la raffigurazione un po’ fuori dalla realtà di certe serie televisive, e allo stesso tempo non ci si limita a puntare il dito contro. I celerini del film sono sì esaltati, violenti e stanchi, di certo non degli stinchi di santo, ma anche rosi da tensioni continue e bersagli di gruppi altrettanto violenti e fissati; sono appunto frutto di uno spicchio di società sempre più fuori controllo, preda di una violenza che è valvola di sfogo ed espressione politica. Tutto questo è rappresentato dalla Roma periferica, fatta di ultras, di gruppi neofascisti e di case popolari occupate, dove si fanno sentire i problemi di un’integrazione che diventa una lotta per le briciole. Il film è “romano” fino al midollo, come mostra per esempio l’uso del dialetto e qualche frecciata al sindaco Alemanno e alle sue promesse di sconfiggere la criminalità, nonché frequenti riferimenti visivi alla geografia sociale della città. Non è un elemento secondario: Roma, nel passato come oggi, è stata l’anticamera di tensioni sociali e politiche che sono sfociate in scoppi di violenza forse più forti che altrove, ma che hanno anche anticipato sviluppi che avrebbero interessato il resto del paese. Per questo la rappresentazione del sottobosco romano diventa simbolo, e avvertimento, di una società italiana che rischia il cortocircuito, evitando (quasi sempre) così il rischio di un eccessivo localismo.
Sollima, pur con qualche concessione ad uno stile televisivo qua e là, è bravo nell’affrontare di petto la materia e la realtà che ne è alla base, come già detto senza compiacimenti e retorica, ma anche senza volersi nascondere dietro ad un dito. Lo fa attraverso il punto di vista dei tre celerini protagonisti, amici da una vita, per i quali la fedeltà al reparto e ai “fratelli” è ciò che conta di più, e ognuno consumato fino a scoppiare dalla continua rabbia mista a tensione: “Cobra” (Favino) è il personaggio più interessante, il più esaltato, violento e senza altri sfoghi, ma anche quello più complesso e ricco di sfumature; “Negro” (Nigro) è forse il più schematico, con il suo sfogare i fallimenti privati in una crescente violenza, mentre “Mazinga” (Giallini) è il più vecchio, stanco e disilluso, il più consapevole degli errori e della strada senza uscita in cui sono finiti; Mazinga è anche colui che capisce quale sia stato il punto di non ritorno per la celere: il massacro della scuola Diaz di Genova nel 2001, definito “il nostro più grande errore” e che torna, grazie alla toponomastica della capitale, a chiedere il conto nel finale.