La Mala Vita
Un uomo in impermeabile cammina da solo con fare sospetto(so) in un parco. Un bancario estorce furtivamente fasci di banconote da una valigetta. Una musica incalzante – opera di Luis Bacalov e degli Osanna – ci ossessiona, ripetitiva e tesa, fino alla consegna dei soldi, prelevati da una insospettabile ragazza che con disinvoltura si allontana senza lasciare traccia.
L’incipit di Milano calibro 9 non dà scampo, scaraventandoci in un clima livido e funesto. Ma quale poliziottesco, quale cinema reazionario, quale violenza fine a se stessa. Nella storia di Ugo Piazza che, uscito di galera dopo tre anni, trova ad aspettarlo i compagni di un tempo convinti che abbia sottratto loro 300 mila dollari, il regista Fernando Di Leo mette tutto il suo trasporto e tutta la sua conoscenza per il noir statunitense e francese – Melville e Huston in primis – distillando il senso di un Destino imminente, ineluttabile. La sua Milano è nera, abitata da uomini disillusi eppure in perenne lotta e da donne “fatali” diabolicamente angeliche. Dopo I ragazzi del massacro (1969) e prima di La mala ordina (1972), Di Leo con Milano calibro 9 trova la piena quadratura del cerchio, la totale realizzazione della sua poetica cinematografica. A colpire come una sassata è la velocità di montaggio, l’accuratezza della costruzione dell’immagine (una per tutte la scena del night, con la danza sinuosa di Barbara Bouchet), l’attenzione alla psicologia dei personaggi. Una sensibilità sconosciuta, che spazza via la suddivisione manichea tra piedipiatti buoni e sicari cattivi. La polizia perde la sua funzione di integerrima e limpida difesa della legge, mostrando ampiamente la propria ambiguità e porgendo il fianco ad un desiderio di vendetta che inevitabilmente la accomuna al sottobosco criminale che desidera combattere. In Milano calibro 9 non c’è speranza a cui appigliarsi. Lo capiamo dai primi e primissimi piani che ingabbiano Piazza/Ugo Moschin, dal suo sguardo segnato dall’inesorabilità della sconfitta, dai dialoghi intrisi di nichilismo (“E tu, che prospettive hai?”, gli domanda l’amante ritrovata; “nessuna” risponde lui). L’unica ironia concessa è quella dell’amaro gioco delle apparenze, che crolla nella resa dei conti finale: la furbizia diventa stupidità, l’amore si trasforma in tradimento, l’ostilità lascia spazio al rispetto. E resta una sigaretta che si consuma sul bordo di un tavolino, simbolo della (mala)vita e del mondo. Troppo pessimista, troppo cupo per essere verosimile? Una domanda cui Giorgio Scerbanenco – il soggetto del film è tratto dal suo romanzo Stazione Centrale Ammazzare Subito – avrebbe risposto con un laconico “riassumo, semplicemente, la realtà”.
Milano calibro 9 [Italia 1972] REGIA Fernando Di Leo.
CAST Gastone Moschin, Barbara Bouchet, Mario Adorf, Frank Wolff, Philippe Leroy.
SCENEGGIATURA Fernando Di Leo (tratta dal romanzo Stazione Centrale Ammazzare Subito di Giorgio Scerbanenco). FOTOGRAFIA Franco Villa. MUSICHE Luis Enríquez Bacalov, Osanna.
Noir/Poliziesco, durata 100 minuti.
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