RaiMovie, giovedì 26 gennaio, ore 13.40
Il contrario di uno
Una metropoli, New York. Un appartamento, 67esima strada, ovest, a cento metri da Central Park. Una racchetta da tennis come scolapiatti, e uno specchietto rotto, in borsetta. Due personaggi, C.C Buxter (Lemmon) e Fran Kubelik (MacLaine), malinconici e soli. Vite inchiodate all’uno. Il numero dell’individualismo moderno, della solitudine della vita contemporanea.
Di quella di Baxter, sappiamo che è impiegato presso una grande compagnia di assicurazioni, la “Consolidated Life”, nel ramo statistiche. Che cena solo, ogni sera, davanti alla tv, dopo aver rassettato casa. Che si sente come Robinson Crusoe, come un naufrago tra otto milioni di persone, nella New York del 1960. Un’isola deserta, la Manhattan di Wilder ne L’appartamento, in cui i verticalismi e le profondità di campo incombono prepotentemente. Accanto all’insistenza sul numero di piani della sede della compagnia, sono soprattutto le scene ambientate nella affollatissima sala degli impiegati (per le quali lo scenografo Trauner adottò la stessa soluzione prospettica pensata, trent’anni prima, da Vidor per il suo La folla, film dal quale lo stesso Wilder dichiara di aver tratto ispirazione) a produrre un brutale appiattimento della vita delle persone.
E quella di Buxter, come tante altre, si limita alla sfera lavorativa, unica presunta fonte di appagamento e soddisfazione personale. Condizione che lo induce ad escogitare un metodo piuttosto singolare per fare carriera: decide di prestare il suo appartamento come luogo per gli incontri exraconiugali ad alcuni dirigenti della “Consolidated”, così ottenendo il favore di questi ultimi, e la promessa di una promozione al ruolo di dirigente. Scalata sociale che inizia rapidamente, una volta garantita la disponibilità quasi esclusiva dell’appartamento al direttore generale, il signor Sheldrake (MacMurray), per i propri incontri clandestini con la signorina Fran Kubelik, sua giovane amante.
In quello stesso appartamento però, dopo uno dei tanti appuntamenti con Sheldrake, Fran cerca di togliersi la vita. In realtà, della sua solitudine, nel corso del film, abbiamo appreso poco.
Ne immaginiamo d’improvviso la portata, quando Wilder la esibisce, riflessa, sulla superficie infranta dello specchietto che lei porta nella borsetta. Ne intuiamo la disperazione dal quel suo “Mi ci vedo come mi sento”. E per un attimo, sulle calibratissime immagini wilderiane, a prendere il sopravvento è l’abisso della solitudine, mare che tuttavia non inghiotte definitivamente i due protagonisti. Naufraghi dell’esistenza, Fran e Buxter sono stretti da un’alleanza segreta, un filo doppio che, a loro insaputa, li tiene e non li lascia annegare.
Tanto che a distanza di più di cinquant’anni – maggio 1960, anno in cui L’appartamento ottenne 5 premi Oscar per miglior film, regia, sceneggiatura, montaggio e scenografia- il senso di quella frattura continua a dare spessore, ai dialoghi come ai personaggi. A dare profondità e prospettiva alla disperazione del moderno self-made man americano, stranamente incompatibile con un certo tipo di isolamento tanto cercato, e fortemente a disagio con il cinismo ed il pragmatismo della vita moderna.
Magica miscela di ironia e sentimentalismo, allegria e tristezza, tra tutti i lavori di Wilder L’appartamento resta un film indimenticabile. Forse per quella impercettibile alchimia di sguardi conclusiva, complicità capace di gettare un ponte sull’oceano di solitudine che separa Fran e Buxter, due isole lontane, mondi a parte. Eppure legati.
Simbolicamente congiunti dallo spaghetto trattenuto nella griglia della racchetta-scolapiatti di Buxter, ricordo di una straordinaria -sebbene mai riuscita fino in fondo- serata a due.
Due come il contrario di uno, come l’opposto della solitudine. Due come avventura, come esperienza che accende di vita l’ altrimenti mera esistenza, e fa il verso alla morte. Due come partita a carte ancora tutta da giocare. Due come una cosa meravigliosa: un pranzo per due.