All’acqua di rose
Jackson, Mississippi, primi anni Sessanta. Tra ville e villette, dominio incontrastato di casalinghe di ogni età dedite al bridge e all’esercizio di ipocrisia e razzismo, lavorano uomini e donne di colore, tra cui le governanti che tengono in piedi le case padronali e ne accudiscono la prole.
Fresca di laurea, “Skeeter” Phelan torna a Jackson e ha l’idea di raccogliere in un libro le testimonianze di quelle stesse governanti, vittime di soprusi più o meno velati. Dopo le prime resistenze, l’onesta Abigail e l’energica Minny si fanno avanti, facendo da apripista a tutte le altre. Tralasciando il fatto che il soggetto stesso del film è datato e parzialmente offensivo (la ribellione delle afroamericane sottomesse è possibile solo grazie alla giovane bianca emancipata), il difetto principale è la bidimensionalità dei personaggi e la pretestuosità di alcuni snodi narrativi. E’ evidente che l’intento di Tate Taylor, Kathryn Stockett e della produzione Disney è il puro racconto di una vicenda edificante ridotta alla storia personale delle protagoniste ed edulcorata dai suoi risvolti più drammatici (a meno che non siano funzionali alla trama: l’omicidio dell’attivista Medgar Evrers spinge le governanti a partecipare alla stesura del libro). Ciò non giustifica una separazione tra buoni e cattivi talmente superficiale da rendere il film fine a se stesso e privo di valore sul lungo termine. Personaggi onesti, stravaganti al massimo, oppure irrimediabilmente meschini, come l’Antagonista Hilly Holbrook; quelli dal tratteggio meno nitido, come Mrs. Leefolt, vengono lasciati nell’ombra, senza la possibilità di una rappresentazione più sfaccettata. Si affossano così gli spunti interessanti presenti nella pellicola: ad esempio la scelta di un racconto tutto al femminile, dove gli uomini sono sistematicamente relegati fuori dall’inquadratura e dalla vita quotidiana delle signore di casa. In quest’ottica è un passo falso l’introduzione sbrigativa del neo-fidanzato di Skeeter: troppo frettolosa per dare il giusto spessore al personaggio, troppo incomprensibile il motivo della rottura. L’intuizione migliore resta il tentativo di costruire un background che accomuna le signore e le serve, le madri e le figlie, in un’eterna gabbia in cui le condizioni sociali si tramandano sempre identiche, dove le governanti stesse crescono amorevolmente le bambine altrui che domani saranno le loro padrone, ma che non sono meno prigioniere dello stesso sistema restrittivo e sessista. Significativo che la madre di Skeeter, una delle rappresentanti più ferme di questo status quo, sia protagonista di una posticcia redenzione dell’ultimo minuto, esemplificativa della mancanza di coraggio del film. Verrebbe da dire che non c’è bisogno di pellicole di questo tipo, ma il successo tributato a The Help dall’audience statunitense sembra dire il contrario. E allora non resta che prenderlo per quello che è: un film buonista e ricattatorio, abbastanza scorrevole e ben recitato da accontentare il grande pubblico, che strapperà qualche Oscar e, si spera, verrà dimenticato in fretta.