Spie come noi
Londra, anni Settanta, Guerra Fredda. All’interno dei servizi segreti britannici lavora una talpa del KGB. George Smiley, ex agente mandato in pensione prima del tempo, viene incaricato da un sottosegretario del governo britannico di smascherarne l’identità.
Questo l’incipit dell’intricata trama alla base del romanzo, in larga parte autobiografico, di John le Carré, da cui nel 1979 fu tratta una miniserie televisiva con Alec Guinness, ora adattato per il grande schermo da Tomas Alfredson.
Una fitta rete di intrighi e inganni che si sviluppa in un vorticoso andirivieni geografico e temporale, che vive soprattutto nei frammenti dei ricordi e nei tasselli di un passato da rivivere e ricomporre.
Cinema stratificato, complesso, sofisticato quello di Alfredson, già autore di quel gioiello horror che è Lasciami entrare, che cresce di minuto in minuto e inchioda lo spettatore ai dettagli, al non detto, ai piccoli gesti e agli sguardi di un attore superlativo come Gary Oldman.
Un tipo di cinema fortunatamente e felicemente lontano anni luce da spy story più spettacolari, fracassone, muscolari e per questo più asettiche e disumane. Perché a colpire e affascinare di La talpa è soprattutto l’esplorazione del lato psicologico e sentimentale dei suoi protagonisti.
Sotto il loro aspetto grigio e ordinario covano ideali traditi, abbandonati e una sfera affettiva dolorosamente quanto inevitabilmente fallimentare, sacrificata, repressa, cancellata in quanto unico, vero lato debole di uomini costretti a dover condurre una doppia vita con freddezza e calcolo.