Sky Classics, lunedì 9 gennaio, ore 22.35
La possibilità della narrazione e dello sguardo
All’inizio tutto sembra essere il territorio del possibile, la narrazione è un divenire infinito di eventualità, Antonioni non spiega e fa in modo che le domande continuino ad assillare lo spettatore per parecchi minuti; che ci fa un’occidentale (Jack Nicholson) sperduto in un paesino nel cuore del deserto africano? Chi è il cadavere che il protagonista trova poi nella camera a fianco? E perché quest’ultimo decide di scambiare le foto nei passaporti?
La spiegazione arriva entro breve, così a dare l’inizio alla narrazione, ma, come detto in precedenza, ci troviamo nel territorio del possibile, le domande si sovrappongono nella mente dello spettatore rendendolo incerto su quali dettagli dare attenzione per cogliere alcunché sul personaggio e sulla vicenda. Professione: reporter è sia un film giallo che un film d’avventura, ma entrambi i generi vengono svuotati lasciando solamente lo scheletro di ciò che sono; Antonioni realizza una pellicola minimalista prendendo come modello due dei generi che più si discostano dal suo cinema, senza per questo snaturarsi e snaturare la base di partenza, la fabula, infatti, non perde mai potenza e tanto meno non è mai messa in secondo piano.
Con questa pellicola probabilmente il regista ferrarese arriva alla migliore unione tra le due anime del suo cinema, quella basata sui silenzi e le incomprensioni, propria dei primi anni ’60, e quella fatta dall’assenza di dialogo, donando importanza all’analisi della realtà attraverso i mezzi di ripresa della stessa.
Professione: reporter è un film importante per la capacità di elaborare l’elemento narrativo, si ha quasi la sensazione di stare a vedere una storia che, nella sua creazione di possibilità, è fin troppo grande per essere raccontata; allo stesso tempo però è la realtà, e il mezzo di ripresa della stessa, che rischiano di declassare l’importanza della fabula, forse è proprio per questo motivo che Antonioni decide di coadiuvare il materiale documentaristico del protagonista con quello narrativo: due mezzi d’espressione che si filmano per riuscire a realizzare un ritratto più grande.
Se nella prima parte, l’immagine, ci appare piana, priva di profondità di campo, quasi a bloccare il protagonista all’interno del mondo di ripresa (il nome del personaggio appunto gioca su questo aspetto, Locke suona come “bloccato” in inglese) divenendo specchio della sua condizione di vita, nonché motivando il gesto di sostituzione e il tentativo di fuga per abbandonare tutti gli obblighi e vivere come una persona totalmente libera, dalla metà in poi, la profondità di campo, diviene sempre più elemento essenziale dell’immagine, sciogliendo il protagonista e rendendolo capace di muoversi negli ambienti come precedentemente non poteva.
Ma è, di nuovo, grazie al nome che allo spettatore viene data un’informazione essenziale per comprendere il percorso futuro del protagonista: il suo nuovo cognome è Robertson (“figlio di Robert”, il richiamo ad un legame), già da questo a esser suggerita è l’illusorietà di quella emancipazione che per un attimo Locke aveva pensato di ottenere attraverso lo scambio d’identità. Antonioni toglie ogni speranza di libertà, chiudendo l’essere in una scatola di obblighi, e nel quale ad esser lasciati liberi sono solo lo sguardo e la mente.