Scherzi pesanti a New York
“Non credo né a Dio, né al Diavolo e sono doppiamente incapace di avere paura del mio film, che mi annoia molto”. Così Roman Polanski ai Cahiers du Cinéma, appena uscito il suo Rosemary’s Baby.
Una provocazione, certo, eppure sembra una burla, questo film, con tutti i suoi passaggi improvvisi da realtà a sogno ad allucinazione, la sua triste e inquietante nenia infantile di sottofondo (che tanto userà poi Dario Argento), i suoi personaggi grotteschi, bizzarri nei loro completi sgargianti. Un esercizio di stile horror, costruito su stereotipi come la casa maledetta e la possessione demoniaca. Non a caso, a produrre è William Castle, grande artigiano dell’horror anni ’50 e ’60, che con case maledette e sedute spiritiche aveva fatto (relativa) fortuna, e che verrà celebrato da Joe Dante nel suo Matinée (1993). Il colpo di genio, che trasforma Rosemary’s Baby da burla a scherzo pesante, è stato quello di cambiare ambientazione e contesto sociale di questi stereotipi: la casa maledetta non è più una bicocca isolata, ma un appartamento in centro a New York; la setta satanica è nascosta nell’alta borghesia e tra i “notabili”, non tra i poveracci sbandati e creduloni dei bassifondi. Non meno importanti sono i riferimenti a dicerie e personaggi ai tempi attuali: la figura di Adrian Marcato, capo setta nel film di Polanski, è ricavata da quella di Aleister Crowley, demonolatra che si dice sia stato in grado di evocare un diavolo, personaggio di grande ispirazione per la scena underground, e soprattutto per Kenneth Anger. Vi è poi la l’ambientazione temporale del film: Rosemary partorisce il figlio di Satana il 6 giugno 1966. A parte l’ovvio riferimento al numero del diavolo, il 666, il 6 giugno 1966 era anche la data che molti movimenti satanici hippy consideravano come il giorno della venuta dell’Anticristo su questo mondo. Il messaggio, grottesco, provocatorio, appunto da scherzo pesante, era che il Diavolo è vicino a noi, a tutti noi. È al nostro fianco, ci segue per strada. Entra tranquillo nella nostra casa, nel nostro letto, in noi stessi. E invece che combatterlo, lo accettiamo, come fa Rosemary, che acconsentirà a fare da madre al figlio satanico. Era nato il cinema demoniaco moderno, quel filone dell’horror che porterà a L’esorcista (1973) e a Il presagio (1976), passando per una miriade di copie e fotocopie più o meno riuscite, provenienti da ogni angolo del mondo: Rosemary’s Baby è uno di quei pochi film che possono essere realmente definiti capostipite di un genere e, come tale, nel bene e nel male, è imperdibile. Al messaggio provocatorio, Polanski aggiunge tutta la sua vena sperimentale (negli anni si sono sprecati termini come onirico e surreale) fatta di inquadrature sghembe, macchina a mano e sovraimpressioni, senza perdere la sua magistrale abilità nel creare tensione. Merito anche delle sceneggiatura, dello stesso Polanski tratto dall’omonimo libro di Ira Levin, in cui ogni dettaglio crea una rete paranoica sempre più avvolta attorno a Rosemary, e a noi che guardiamo. In questo, per le sensazioni che sa trasmettere, Rosemary’s baby colpisce ancora a fondo. Sarà anche per i fatti che colpirono Polanski poco dopo il film: l’assassinio della moglie Sharon Tate da parte della setta di Charles Manson. Certo una casualità, ma Rosemary’s Baby spinge a questi collegamenti, e nel rivederlo oggi, il film ci colpisce ancora di più, per l’angoscia generata dalla sensazione che, da scherzo pesante, quest’opera sia in parte diventata triste, brutta, squallida realtà.
Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York [Rosemary’s Baby, USA 1968] REGIA Roman Polanski.
CAST Mia Farrow, John Cassavetes, Ruth Gordon, Sidney Blackmer, Ralph Bellamy.
SCENEGGIATURA Roman Polanski (tratta dall’omonimo romanzo di Ira Levin). FOTOGRAFIA William Fraker. MUSICHE Krzysztof Komeda.
Horror/Grottesco, durata 136 minuti.
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