INEDITO, SERBIA 2009
Traumi di guerra
Doveva restare dentro i confini nazionali il “film serbo” diretto da Srdjan Spasojevic. Una piccola produzione concepita per il mercato interno, diventa invece un caso e interroga l’opinione pubblica su quale siano i limiti che la cinematografia non dovrebbe superare.
Difficile dare un giudizio definitivo su questa querelle, bisognerebbe addentrarsi nel secolare dibattito che ruota intorno a libertà di espressione, censura e rappresentazione della violenza. In questo caso potrebbe essere davvero una questione di “confini”. Quelli territoriali, li ha oltrepassati anche per indubbie qualità artistiche. In patria, dove gli attori sono molto popolari, sono sembrati più delineati anche i confini di genere, perché, pur trattandosi chiaramente di fiction, il film nel film è uno snuff movie in cui la pornografia non scandalizzerebbe tanto se non fosse legata in modo così brutale alla violenza e all’ostentazione della realtà. A Serbian Film fa discutere come fecero discutere Salò e Cannibal Holocaust, con i quali si possono trovare molte analogie. Certo è che le efferatezze mostrate qui, come nei film di Pasolini e Deodato, sono inquietanti e mettono alla prova non solo i più deboli di stomaco ma chiunque si lasci coinvolgere dal racconto.
E’ la storia di Milos (Srdan Todorovic), un ex attore porno che abbandonata la professione per dedicarsi a moglie e figlio, accetta di comparire in un ultimo film, in cambio di una irrifiutabile somma di denaro. Non gli è permesso, però, conoscere alcun particolare della sceneggiatura. Dovrebbe essere un dettaglio di poco conto in un film hard, ma quando scoprirà le pretese dell’eccentrico regista Vumkir (Sergej Trifunovic) capirà di essere nelle mani di una sadica organizzazione criminale. Sarà ormai troppo tardi per sottrarsi ad un escalation di atrocità impensabili.
In un incubo ad occhi aperti – in cui conigli, pavimenti a scacchi, sequenze oniriche e allucinatorie ricreano con efficacia le più cupe atmosfere lynchane – Spasojevic mette in scena una storia di abusi e torture come allegoria delle atrocità subite dalla popolazione durante gli anni di guerra nei Balcani. La Serbia è una nazione immorale e depressa “in cui non si può fare vera arte. Dove non c’è vita non ci può essere arte”. Così, una delle tante follie del regista-torturatore di Milos è filmare una violenza sessuale consumata su un bambino appena uscito dal grembo materno. I lettori ci scuseranno per questa anticipazione che potrebbe “rovinare” la sorpresa, ma la scena – che vi assicuriamo non è la più sconvolgente del film – è sicuramente esemplare per capire di cosa stiamo parlando.
Siamo oltre i confini del buon gusto, ma quando vediamo horror con altrettanto spietati serial killers che fanno scorrere sangue a fiumi, forse ci allontaniamo talmente tanto dalla realtà che ferocia e brutalità non vengono percepite, anzi, il disgusto assume un effetto catartico (si pensi al successo di Saw-L’enigmista). Qui c’è la volontà di creare la sensazione contraria: di far sentire, saggiare, mettere in mostra la violenza per ricordare con severità i crimini più feroci compiuti in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Un conflitto in cui le truppe serbe commisero massacri di civili, stuprarono migliaia di donne e proprio lo stupro etnico fu alla base di un immondo tentativo di genocidio. Il newborn porn, a cui inneggia il perverso regista nel film, non è altro che una metafora di tutto ciò.