L’eterna illusione
“Memoria e fiducia”. Sembra uno slogan sulla fede, ma allora il sacerdote che lo pronuncia ha le fattezze di Pieraccioni.
Ci sono tre motivi per non ricordare questo slogan: 1) è la morale esile esile di un film ancor più esile esile, traducibile per lo spettatore distratto con le parole della chiusa finale, ovvero “se non smetti di aspettare le cose arrivano”; 2) è soprattutto un gioco, basato su due fasi, la “memoria” di ricordarsi un appuntamento con l’altra persona, e la “fiducia” di gettarsi dalla finestra sapendo che a quell’ora prefissata l’altra persona sarà giù ad aspettarvi con un materasso salvavita, ovviamente se ti getti dalla finestra giusta come Pieraccioni non insegna; 3) tanto per ribadire il “concetto” morale-estetico delle due intuizioni precedenti, è anche una canzone non molto sopportabile, scritta dallo stesso Pieraccioni e ripetuta addirittura due volte, titoli di coda inclusi.
Strano dunque non notare un quarto motivo che sembrava inevitabile: l’ultimo film di Pieraccioni non si chiama Memoria e fiducia ma Finalmente la felicità. Poco male, perché la scelta di questo titolo mantiene ciò che assicura: essere fin dal titolo un’altra, ennesima versione di Il paradiso all’improvviso e contemporaneamente sembrare una canzone di Albano. Ma prima di proseguire è necessario fare un passo indietro, nella stessa maniera con cui Pieraccioni apre il film per passare da Maria De Filippi a introdurre qual è stata la sua vita da sognatore finora. O forse è meglio non farlo, perché la presenza inquietante e purtroppo presaga di Maria De Filippi anche al cinema (per la seconda volta dopo l’abominio di Natale sul Nilo) congela il sangue. Stavolta galeotto fu C’è posta per te che permise a Benedetto (Pieraccioni) di conoscere Luna, la figlia adottata a distanza anni prima dalla madre defunta. La commedia di Pieraccioni nasce e muore qui, sviluppando ancora il tema del colpo di fulmine che il maschio prova per la futura moglie bellissima del biennio (dato che i film di Pieraccioni dal 1997 si avverano solitamente ad ogni natale dispari), film dopo film diversa nel nome ma sempiterna nell’ideale di bellezza e nelle forme. E se ci pensate bene, si potrebbe dire che il film altro non è che un pretesto innescato dal programma di Maria De Filippi. Questo la dice lunga sullo stato della commedia popolare italiana ad un passo del 2012.
Pieraccioni è il più imperdonabile dei registi italiani. Alfiere di una commedia ripetitiva ma non molesta, animo sensibile ma pessimo narratore, potenziale per fare un cinema diaristico anche nella commedia e per azzardare una lieta e malinconica introspezione. Invece Pieraccioni è diventato fin dal primo film l’alter ego comico e scadente di Gabriele Muccino, però almeno privo dei suoi isterismi. Si arrocca in una toscanità che non ha nulla di Monicelli ma nemmeno di Virzì, e fa scadere questo suo punto di forza in un provincialismo già stantio. Niente descrive Pieraccioni come il paradosso del suo penultimo film, Io e Marylin: il possibile soggetto più fantasioso della commedia italiana degli ultimi anni si è trasformato in uno dei film più evanescenti e anonimi del decennio, brutta imitazione di imitazioni. E Finalmente la felicità non va aldilà di questo cinema eternamente felice e vissuto come terapia di felicità, sempre più usurato e forzato nello svolgimento. Almeno “filosoficamente” è un passo avanti: la fatalista dottrina del “memoria e fiducia”, la priorità della musica come progetto di crescita, si accenna con un guizzo inatteso ma effimero al grottesco con la morte della madre per colpa di Barbara Bouchet e dell’aerodance anni ’80, si fa ancora meno descrivendo un “aerodinamico” ladro clandestino. Ma non è un film sulla musica, né una commedia che per un solo istante sogna in grande: è sempre lo stesso film di Pieraccioni, mai cresciuto e semmai peggiorato nel complesso.
Non è un peccato fare lo stesso film e Rohmer proprio grazie a questa fedeltà ha creato un cinema che nel film successivo poteva completare ciò che narrava il film precedente. Il cinema di Pieraccioni però ha la perseveranza negativa di chi fa cinema perché vuole fare una commedia, fa una commedia perché ha bisogno di credere in un disegno di felicità perennemente immoto o semplicemente per autoconvincersi. E lo impone al pubblico come un decreto legge. Adorno criticava Hollywood proprio per la sua continua, illusoria promessa di felicità, che abbindolava le masse e annientava il loro spirito critico. Pieraccioni invece non promette solo la felicità, ma la considera la premessa, lo svolgimento e il risultato del suo cinema. Per questo ciò che viene raccontato e come viene raccontato non contano perché capo e coda sono già prestabiliti; per questo è cinema che non merita memoria e ancor meno un voto di fiducia.