Ritratto di fantasma
Mors tua vita mea, recita il proverbio. Non contateci troppo. C’è anche chi il rancore se lo porta nella tomba per poi ritornare a chiedere il dovuto. Ma Florence Cathcart ai fantasmi non ci crede, anzi smaschera impietosamente orde di impostori che sui lutti della Grande Guerra hanno innalzato un business.
Spiriti posticci, sussurri e sovrimpressioni sono per lei solo piatta routine. Per questo viene interpellata quando, in un collegio della campagna inglese, le foto di classe mostrano più di quel che si vede…
1921- Il Mistero di Rookford vanta meriti affatto banali nel panorama orrorifico contemporaneo, sposando con intelligenza gli elementi tipici della ghost story – bambini, governante, filastrocca, uomo nero – a un umido paesaggio di brughiera, boschi roridi e lugubri edifici, gravidi di malessere e di torti taciuti. Perché è questo che fanno i fantasmi. Ricordare ai vivi le ingiustizie subite. Simbolo per eccellenza del rimosso che emerge, il fantasma non condivide le pulsioni libidinose del vampiro né il valore “politico” degli zombie. Ha in sospeso un credito personale e, se vuole vendetta, sa a chi farla pagare. Il senso di colpa è il suo veicolo (s)elettivo e la sua presenza, più che il suo aspetto, innesca la paura. Il film di Nick Murphy la coltiva pazientemente, attingendo tanto al cinema orientale (i volti sfigurati di The Ring, gli scatti rivelatori di Shutter) discendente delle anime vendicative del teatro kabuki, quanto al cinema dell’incertezza ontologica su chi sia il trapassato in questione (Il sesto senso, The Others, The Orphanage). L’eccellente fotografia di Eduard Grau valorizza una regia ponderata e solo a tratti ingenua, capace comunque di restituire la percezione parziale di Florence o la cieca superstizione dei creduli, limitando il campo visivo a dettagli e primissimi piani, sbattendo porte e tirando tende in faccia allo spettatore prima che riesca a orientarsi completamente. Lo spiare nelle finestre di una casa di bambole o in un buco della parete anticipano i flashback di Florence bambina attraverso i pertugi dei suoi nascondigli, mentre gli ostacoli che affollano l’inquadratura rimandano alle barriere innalzate dall’inconscio ad impedire una corretta comprensione del quadro. Un quadro piuttosto complesso, a dire il vero, tanto che nel finale l’asciutta vena narrativa sfocia in un magma fin troppo denso, in cui la mole dei retroscena grava a discapito del loro effetto.
Tra gli aspetti più rilevanti restano la scelta di una donna ad espressione del raziocinio – tendenza sempre più marcata nell’ambito del fantastico e della fantascienza – e il rimorso irrazionale dei sopravvissuti. Ma se Florence è forte e istruita, come l’Artemisia Gentileschi di cui osserva il quadro, il suo razionalismo dovrà capitolare, passando per (con)temporanea malattia in via di reincanto. Ai reduci, invece, è concesso il perdono, purché non colpevoli di diserzione, questa sì, condannata senza scampo. La morale, tutto sommato, è prevedibile: se non volete un fantasma in soffitta preoccupatevi dello scheletro nell’armadio.