L’uomo che non uccise il West
Un uomo sta per tornare a casa, dopo una lunga odissea; ma non varcherà mai la soglia della porta. Esce fuori dal campo mentre tutto il resto della famiglia, vecchia e nuova, celebra la rinnovata felicità; e, con la stessa inquadratura con cui era incominciato, il film e l’idea di casa si dissolve nel nero, senza accogliere mai più il suo protagonista.
È un’inquadratura tra le più importanti e tra le più dense della storia del cinema, ma non è una scena di L’uomo che uccide Liberty Valance, eppure potreste scambiarlo come il finale ideale per ciascuno dei due protagonisti John Wayne e James Stewart, se per ipotesi potessero uscire di scena nella stessa inquadratura.
E invece a ciascuno spetta una storia diversa, un’inquadratura finale diversa, chi in una bara e chi comodamente in treno. Quest’inquadratura invece non poteva che appartenere all’epilogo di Sentieri selvaggi, a quel punto d’arrivo sublime del cinema di John Ford che ancora oggi è così grande da comprendere incredibilmente in un unico film una definizione di ciò che il western era e sarebbe stato. L’eredità di Sentieri selvaggi è così opprimente che qualsiasi film successivo, pur grande, rischia di essere solo una sua appendice. L’unico che poteva rispondere al John Ford di Sentieri selvaggi era il John Ford di L’uomo che uccise Liberty Valance, almeno prima di Peckinpah e Leone. Una risposta dialettica innanzitutto e che ha come perno la storia definitiva del West. All’unità e alle unicità che emergevano in Ethan Edwards, che emergevano nel comprimere le sfumature del West più solidali, si contrappone la duplicità di Tom Doniphon/Wayne e Ransom Stoddard/Stewart. Doniphon rappresenta il West così com’era, l’altro il West che lo rimpiazzerà; Doniphon è la pistola, l’istintività, la tradizione; Stoddard è la legge, il giudizio, il pedagogismo, la civilizzazione. Il film inizia sulla bara di Doniphon, con Stoddard anziano senatore ed ex governatore a vegliare su un uomo che la Storia ha dimenticato, anzi non ha mai ricordato. Stoddard non veglia solo ma insieme al senso di colpa per aver guadagnato una fama che non meritava, per aver sottratto a Doniphon ciò che gli spettava. Tra Stoddard e Doniphon c’è Valance, baluardo della violenza negativa. Eppure Valance ha modificato entrambi, perfino lo “spirito dell’Est”.
Il film spesso è stato interpretato come il racconto della fine di un’epoca e l’inizio di una nuova, ma è un’opposizione che incorpora anche il passaggio dalla vendetta alla giustizia, dal mito alla verità. Come ogni grande capolavoro, il film è molto di più e racconta molto di più. Stoddard, come Ford, non è un uomo “nuovo”, non è il moderno. Semmai è la contraddizione del moderno. Ha avuto bisogno del West che voleva combattere per trasformare quello stesso West. E così facendo finisce per essere un eroe del passato perché è stato questo passato a creare il suo presente. Un po’ com’è successo a Ford: è stata la sua cultura di americano che vedeva tramontare un’epoca con gli occhi di un uomo del passato a concedergli tanta lungimiranza, e persino di essere moderno nella visione, nelle conclusioni. Eppure il suo è un film irrimediabilmente del passato e così doveva essere, seppur portato all’apice, a una visione di bellezza cinematografica e a un istinto di sapienza narrativa che persevera quella che Winckelmann avrebbe chiamato “nobile semplicità e quieta grandezza”.
Un luogo in cui la presenza più forte è quella di una bara, dove non si possono più filmare duelli ripresi genialmente con due sole inquadrature, distanti nel racconto, un luogo che cambia e cambia ma intanto questa frase, come una maledizione resta sempre uguale: “Siamo nel West. Dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda”.