La favola di chi non credeva alle favole
Ricordate la storia di Polar Express? Era una storia di bambini perché gli adulti avevano perso la facoltà di sentire i rumori del Natale, di credere al suono di un gingillo o al suo potere fantastico.
Gli adulti avevano smesso di vivere favole e così avevano smesso anche di crederci. Forse perché oggi, più che mai, il linguaggio delle favole non parla il linguaggio della crisi che dai mercati passa al lavoro e dal lavoro passa alle case.
Così la favola sembra relegata a un anacronismo o all’inconsistenza. O forse no, se Miracolo a Le Havre ha ragione, se un pessimista cronico come Kaurismäki sfida sé stesso e invece celebra la speranza della vita e la vita della speranza. Cambia ma non cambia il suo cinema: un cinema ora tragico, ora avvolto dalla commedia, straniante e poetico, minimale per vocazione perché sa scegliere poche parole e si realizza soprattutto quando sa non usarle, lontano lontano dal postmodernismo o da un’arte postmoderna. E non cambiano i protagonisti, come Marcel, un tempo bohemien e ora sciuscià, vecchio che in fondo è un ragazzo e non può fare a meno di una moglie casalinga e taciturna. Una serenità isolata la sua, la loro, nella felice ma povera vita del quartiere popolare e che verrà interrotta dalla malattia terminale della moglie e da Idrissa, un giovane clandestino del Maghreb che vuole raggiungere l’Inghilterra per ritrovare la madre.
Miracolo a Le Havre è la favola che crede in una comunità ideale: una comunità che è una periferia fuori dal mondo civilizzato però non fuori dai problemi del mondo, dove l’individualismo scompare e in cui non ci sono perdenti che cercano una riabilitazione ma umili che salvaguardano ciò che non hanno perso. Non è una favola di cambiamento o per cambiare, di tappe, ma la scarna e originale favola del cinema indipendente che crede in chi non cambia e resta fedele al suo umanismo. La favola con cui Kaurismäki potrebbe dire da un momento all’altro “uomo, accontentati di restare solo un uomo, perché anche un ciliegio in fiore o avere certezze dalla propria routine è più di quanto tu creda. Sono dei valori”. Ed è importante come lo dice, con il potere del dramma trasformato in ermetica e amabilissima commedia umana. Tanto che la critica non può non concepire Miracolo a Le Havre come un’enciclopedia dell’umanismo artistico: i nomi dei personaggi rimandano al realismo poetico; la trama a De Sica, Brecht, Casablanca; le immagini a Bresson, Ozu, Chaplin. Un gioco dei rimandi che forse ha qualche verità ma non serve molto a comprendere quel cinema del poco che ama la sua ripetitività e si rifiuta orgogliosamente di sognare in grande. Così la critica rischia di non lesinare la nomea di miracolo cinematografico e di cercare il completamento della storia del cinema umanista in ciò che invece è creato per essere “soltanto” un piccolo film e per essere il più perfetto e poetico momento all’interno del percorso chiuso di Kaurismäki. Ma poetico e perfetto soltanto all’interno di questo percorso chiuso.