RaiMovie, venerdì 25 novembre, ore 4.20
Paura e Delirio in salotto
Alle volte è solo questione di paura, angosciante e alienante paura; e non è questione di film horror, di mostri, di zombie e di fantasmi, si tratta piuttosto di quel senso di pericolo che di notte ti fa tremare quando senti un rumore “sconosciuto” e temi che qualcuno stia rompendo l’intimo equilibrio della tua casa.
Funny Games (ispirato ad un fatto di cronaca avvenuto nel 1924 per mano di Leopold e Loeb), film di Michael Haneke del 1997 – a cui seguirà nel 2008 un remake shot–for-shot, interpretato da Naomy Watts, Tim Roth e Michael Pitt – che partecipa alla 50° edizione del Festival di Cannes, turba, sconvolge, spaventa, prendendo al lazzo, disarcionando, le nostre già fragili certezze e le nostre sicurezze, rinchiudendoci in una stanza in cui domina la violenza in tutte le sue forme. Peter/Giering e Paul/Frisch, Tom & Jerry, novelli drughi di kubrickiana memoria, vestiti di bianco, tracotanti e “straripanti” di atrocità e rabbia, entrano con una scusa – chiedere in prestito delle uova – nella casa di campagna di Anna/Susan Lothar, George/Ulrich Mühe e del piccolo Georgie/Stefan Clapczynski. In quella casa inizia un gioco al massacro in cui i corpi si modificano in una smorfia di dolore, sudore, lacrime e sangue, e la psiche è resa più fragile e “vacillante” dalla paura per se stessi e per la propria famiglia. Se Georgie, il figlio della coppia, si mostra ribelle, recalcitrante, un combattente che piange, si dispera, mosso dalla voglia di farcela, di vivere e accompagnato dalla “spinta naturale”, propria di un individuo che ha appena iniziato il suo percorso e, proprio per questo, vi è legato in maniera “bestiale”; Anna e George, nonostante siano adulti, sono come due bambini che cercano di sopravvivere mettendo in gioco la forza della disperazione di coloro che sanno che la propria fine è vicina. Dall’altra parte ci sono i “cattivi”, che lo sono veramente, senza mezzi termini, topoi letterari di tutta una filmografia, l’uno la mente, l’altro il braccio, l’uno l’incube, l’altro il succube; neanche per un istante siamo dalla loro parte, neanche per un momento proviamo pietà o compassione per quei fantocci viscidi e farciti di boria e violenza, in balia dello schifo che hanno dentro. Il nostro cuore, la nostra mente, i nostri occhi sono messi a dura prova: sentiamo spari ma non sappiamo chi colpiscono; mentre in salotto scoppia l’inferno, noi ci stiamo preparando un panino con Paul in cucina, e vorremmo solo avere il potere di spostarci nell’altra stanza per vedere cosa stia accadendo; sentiamo le parole di quei due pazzi che scommettono sulla vita dei loro ostaggi con le loro stesse prede, senza poter far nulla per aiutarli. Sono proprio giochi strani quelli a cui assistiamo, giochi a cui partecipano anche gli oggetti, trattati alla stregua dei personaggi; dagli oggetti inanimati tutto parte – uova per le quali si scatena l’ira dei due seviziatori – , a causa loro tutto si complica – il telefono rotto, fatto cadere nell’acqua – , sono proprio gli oggetti, guidati da mano psicopatiche, a ferire, picchiare, fiaccare – la mazza da golf che colpisce il ginocchio di George. Ci troviamo immersi in un’atmosfera da lager, i due, come dei carnefici nazisti, disumani e assetati di sangue, umiliano, “snaturano” le loro vittime, mettendo alle corde la loro psiche e il loro corpo; dal progressivo annientamento della famiglia i giovani traggono un sadico piacere che è linfa vitale per la continuazione del loro progetto, e noi, da una parte, assieme ai protagonisti, partecipiamo al dolore che punge i nodi più intimi della nostra anima e, proprio per questo, vorremo distogliere lo sguardo da quel terribile spettacolo, ma, dall’altra, siamo costretti e vogliamo guardare, a causa della continua interpellazione di Paul che ci invita ad essere presenti, ponendoci domande, chiedendoci opinioni, a causa di piani sequenza con camere immobili, che ci mostrano la paura e il delirio di Anna e George, che come larve si contorcono disperate e disarmate. Il film di Haneke spossa e tormenta gli occhi più avvezzi a violenza e sangue, dimostra con l’evidenza delle immagini quanto possa essere folle e malvagia la mente umana, ci fa temere per l’incolumità dei protagonisti, ma anche per la nostra; Funny Games è una “cura Ludovico”, per dirla alla Kubrick, ansiogena e spietata, che ci fa terminare la visione con la paura che qualcuno, con pantaloncini e polo bianca, bussi alla nostra porta chiedendoci della uova.
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