Il sipario strappato
Festival dei Popoli, sala del cinema Spazio Uno gremita, proprio come sarebbe piaciuto al regista Jérôme de Missolz, a ricordare il mood da concerto rock: va in scena Wild Thing, documentario che ripercorre in modo del tutto personale la storia della “musica del diavolo”, sulle tracce di superstiti più o meno conosciuti, più o meno estremi: Reg Presley dei The Troggs (autori della hit che dà il titolo al film), Kevin Ayers dei Soft Machine, Jimmy Carl Black dei Mothers of Invention di Zappa, Genesis P. Orridge e Lydia Lunch.
Molti personaggi pittoreschi e consapevoli, come il vagamente sciamanico Gary Duncan dei Quicksilver Messenger Service, o Eric Burdon degli Animals e John Echolls dei Love; alcuni che hanno un po’ rinnegato quella vita, come Richard Hell dei Television. Su tutti, Iggy Pop, inquieto e straordinariamente brillante, folle e divertente, assurto a simbolo della vera essenza del rock, di quell’eterna irresponsabilità quasi ingenua e soprattutto insopprimibile, che gli ha permesso di risorgere dalle proprie ceneri una decina di volte, e di sfoggiare ancora una carica invidiabile. Mescolando l’approccio storico a quello diaristico, il regista lascia alle parole dei protagonisti il compito non solo di raccontare aneddoti e ricordi personali, ma anche di riflettere sullo scarto tra la progressiva commercializzazione del genere e il continuo, ricorrente rinascere di uno spirito che esige riconoscersi nel rock. Il commento personale fa da contrappunto, perfetta esemplificazione dell’ideale fan che sta dall’altra parte, in cerca di un idolo dopo l’altro da adorare. Il riassunto del regista francese, volutamente non esaustivo e parziale, si srotola per capitoli sul filo dei dischi e dei gruppi che hanno accompagnato la sua vita, dal primo vinile dei Rolling Stones, regalo del padre per il decimo compleanno, agli anni caotici di rave e industrial music. Più che in ordine cronologico, il racconto è suddiviso per aree tematiche, secondo le varie vesti che il rock ha assunto nei decenni: la ribellione, il sex appeal dei cantanti, la politica, il pacifismo, la psichedelia, le commistioni con arte e teatro, la demenzialità, il nichilismo. Con alcuni capisaldi ricorrenti: i Rolling Stones e soprattutto Brian Jones, Iggy Pop, l’antipatia per i Beatles, l’attrazione costante per i gruppi meno accomodanti. Il film però non è esente da un certo nostalgismo, che si fa più pesante sul finale, dove non viene contemplato nulla di ciò che di buono è emerso nella scena musicale degli ultimi anni: ci si ferma convenzionalmente alle morti fisiche di Kurt Cobain e Jeff Buckley, mentre la morte metaforica del tutto è incarnata (a ragione) dall’attitude insopportabile di Pete Doherty dei Libertines. Si poteva osare, forse, un accenno al presente, almeno ai Radiohead, per fare un nome su tutti, a indicare se non altro le vie della contaminazione in cui il rock si reinventa continuamente.
Wild Thing [Id., Francia/USA 2010] REGIA Jérôme de Missolz.
SOGGETTO Jérôme de Missolz. MONTAGGIO Rémi Berge.
Documentario, durata 106 minuti.