Cult, venerdì 18 novembre, ore 21
Voci mute
“Siete voluta entrare nella stanzetta!” gridò Barbalù. “Ebbene, ora vi tornerete e prenderete posto accanto a quelle dame che avete visto là dentro! E perché non parliate mai, vi taglierò la testa!”
Nel melodramma, quasi sempre, a parlare sono i colori. Il melodramma è spesso retorico, ridondante, straborda simbolismi e sottolinea ciò che dice dietro le parole. E’ una questione di pancia, più che di ragione. Può precipitare nel baratro della stucchevolezza, oppure sfiorare vette sublimi. Per raccontare la storia di Ada, Jane Campion non si risparmia nulla: una colonna sonora fiume che travolge tra le note di pianoforte, una fotografia desaturata che ha perennemente i colori della malinconia pomeridiana, della fine dell’estate. Non si risparmia le similitudini, i rimandi, i rispecchiamenti di senso. Dalla macabra fiaba di Perrault Barbablu, al romanticismo gotico di Cime Tempestose. Dall’equivalenza tra mutismo e incomunicabilità, dalla corrispondenza tra sessualità e natura selvaggia, al contrasto tra una civilizzazione opprimente e una wilderness indomita e libera. Ada non parla, nemmeno lei sa perché. Ha una figlia senza padre, un matrimonio combinato, un pianoforte abbandonato su una spiaggia ai confini del mondo. La musica è la sua unica voce, perfino quando è silenziosa come il suono di tasti disegnati sopra un tavolo di legno. La sua lingua è universale, ma non tutti sanno ascoltarla o comprenderla. In molti credono Ada pazza, il marito Stewart esce di senno per una gelosia solo teorica e per una moglie che non ama, l’amante Baines costruisce una via di fuga folle che è scoperta di un sé più profondo, di un piacere incontenibile fino ad allora represso e negato, di una relazione che sia reciproca e non gerarchica. E poi, il melodramma: una bimbetta sventata e cattiva come solo gli infanti sanno essere, un segreto ingenuamente affidato alla parola scritta, in un universo in cui l’alfabeto tradisce. Stewart taglia alla moglie infedele il dito di una mano, cieco di rabbia, più che di gelosia, per la propria incapacità di comprendere quella voce che (a lui) non parla. Il melodramma è così: necessita di un punto supremo di disperazione assoluta, quello in cui tutto sembra perduto e senza rimedio. Per spingere all’azione, alla ribellione, alla passione, più che a un (superfluo) lieto fine. Ada lascia il marito, ritrova se stessa, abbraccia il piacere e il dolore di sentimenti assordanti. Non prima di un ultimo, mai sopito, brivido: mutilata nell’espressione della propria voce, fa seppellire in mare il pianoforte e si incatena a lui, lasciandosi trascinare sul fondo dell’oceano. Se non fosse che l’istinto, sempre lui, si mette di mezzo: sopravvivere a tutto, anche a se stessi, imperativo oltre la ragione e oltre la passione. Ada si libera, riemerge. E’ un sogno oppure un incubo, quello che tornerà a tormentarla anche durante l’epilogo felice, quello in cui lei, novella Ofelia, riposa serena e sospesa sopra al pianoforte, sotto la superficie delle onde, in un silenzio assoluto ed eterno? Il melodramma ci dice questo, parlandoci con gli occhi e con le suggestioni: che non c’è vita senza passione, non c’è anima senza conflitto. E la pace non è di questo mondo, se non nei sogni, o negli incubi.