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Le case dei popoli

giovedì 17 Novembre, 2011 | di Lisa Cecconi
Le case dei popoli
Festival
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Festival dei Popoli, Firenze, 12-19 novembre 2011

Ogni popolo ha una sua terra. Un ventre accogliente che lo ha cullato o un sogno di bruma che lo attende. Un porto o una casa, un luogo natale o una terra promessa. Una parte integrante della sua identità. Non sorprende, dunque, che il legame con il territorio rappresenti un tema ricorrente nei lungometraggi in concorso al Festival dei popoli.

Nostalgia e appartenenza, rivendicazione e sradicamento attraversano trasversalmente opere diverse, dimostrando come la terra di un popolo – o di un individuo – sia prima di tutto uno spazio interiore, uno spazio psichico ed emotivo, troppo spesso negato o espropriato sulla base di confini altrettanto immaginari.

E’ il caso degli sventurati protagonisti di Vol Spécial, ottimo documentario di Fernand Melgar che già in La Forteresse (2008) affrontava le pene scontate dai profughi richiedenti asilo, al confine tra Francia e Svizzera. Stavolta Melgar si concentra sull’assurdo meccanismo che costringe i sans papier a una vera e propria reclusione in assenza di reato, prima di essere espulsi per sempre dal Paese in cui vivono da anni. Nel centro di detenzione amministrativa di Frambois (Ginevra), il regista filma le storie dei suoi “residenti”, come li chiamano gli agenti incaricati di sorvegliarli. Sottratti alle famiglie che molti hanno costruito, rinchiusi a dispetto della loro integrazione (alcuni si trovano in Svizzera da decenni, pagano le tasse e lavorano abitualmente), gli immigrati sprovvisti di permesso sono costretti a trascorrere nel centro fino a 24 mesi di detenzione. Dopo li aspetta il “rimpatrio”. Un volo di linea, nel migliore dei casi, o, peggio, un “vol special”, legati mani e piedi,  stretti al punto che alcuni soffocano durante il viaggio. Melgar lascia emergere la disumanità di un simile trattamento con uno sguardo partecipe e discreto al tempo stesso, eloquente senza essere retorico, limitandosi a mostrare gli sviluppi kafkiani di una procedura alienante, confinata tra stanze chiuse e altissime inferriate, tra ostentata gentilezza e perversa costrizione.

Di segno opposto, per estetica e stile, Mensajero di Martín Solá guarda alle radici della popolazione immersa nelle valli della Puña, nell’Argentina nord-occidentale. Nella cornice di paesaggi sconfinati la vita acquista una dimensione profondamente rituale, amalgamando fede e lavoro nel medesimo pellegrinaggio. Il viaggio di Rodrigo, in direzione di un incarico nelle miniere di sale, è il sottile pretesto per la contemplazione immobile di una natura imponente, alla ricerca di effetti suggestivi e preziose epifanie. L’eleganza ostentata di un bianco e nero esasperato, la composizione formale dei quadri, gli studiati contrasti di suoni e rumori, concorrono a uno sguardo volutamente estetizzante, volto a fondere uomo e paesaggio in un’unica entità spirituale.

Ma è Pierre-Yves Vandeweerd a restituire alle immagini tutto il loro potere evocativo, nel rifiuto stesso di ogni conforto estetico. Il suo Territoire Perdu è la resa in immagine dell’esistenza negata. L’esilio protratto del popolo Saharawi dal territorio che il Marocco ha circondato con un muro, lungo 2400 km, coincide con la sua lenta e inesorabile consunzione. Il succedersi dei piani immobili del paesaggio arido e spoglio ricalca il tempo dilatato di un’agonia, l’angoscia indefinita delle vite sospese e interrotte. La guerra che dal 1979 oppone il Marocco e il Fronte di Liberazione del Sahara occidentale si respira nella staticità delle riprese, nel digradare dei grigi verso pozze di bianco lattiginoso, nella grana indistinta della pellicola in Super 8. Non c’è musica ad accompagnare il progressivo avvicinarsi al confine, solo il lamento del vento e il bramito dei cammelli. E poi le voci. Testimonianze e ricordi di perdite e torture. Di amore per una terra che si fa attesa indeterminata.

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