In attesa di fare il bilancio del cinema italiano prodotto durante il ventennio breve (che darà risultati sconcertanti soprattutto quando le generazioni future guarderanno queste pellicole e si chiederanno perché la storia italiana non ci è entrata se non di sbieco), ci si chiede ora che cosa succederà, nel senso etimologico del termine.
Al momento, probabilmente nulla, poiché ci sono modelli produttivi abbastanza consolidati e i produttori hanno la sensazione di aver segmentato il mercato in maniera abbastanza stabile. Ma tra qualche tempo – mesi, anni forse – le cose cominceranno a cambiare, prima impercettibilmente poi sempre più. O almeno ce lo auguriamo, visto che uno dei problemi più seri della nostra cinematografia – a parte Amelio, Bellocchio, Garrone, Martone, Olmi, Sorrentino e un gruppo di giovani di talento (i Frammartino, Marcello, Munzi, Rohrwacher, etc.) – è stato quello di una rimozione socioculturale del presente, quasi senza precedenti. Il critico Claudio Carabba lo ha definito un cinema dei “telefonini bianchi”, e in fondo era vero: che cos’altro è stato in questi anni il ricorso ossessivo a problemi (o farse) di cuore, immersi in una società del tutto inesistente, mentre là fuori l’identità nazionale si impregnava di umori pessimi? Che cos’altro è stato il cinema dei Muccino e dei Fabio Volo se non una colossale fuga dalle responsabilità, mentre si fingeva di raccontare le generazioni dei delusi, degli insoddisfatti, dei mammoni e dei cornuti, a furia di liti domestiche e cellulari che squillano?
Quindi, tornando a noi, si spera che le cose cambiano, perché se invertiamo il binocolo (il berlusconismo ha attecchito in Italia proprio perché ha contato sull’inanità di una società salottiera, egoista e cristincomenciniana), allora capiamo che prima deve svilupparsi una “Giovine Italia” nuova e poi di conseguenza il cinema che la rappresenta. Sfogliare la bellissima Avventurosa storia del cinema italiano di Fofi/Faldini fa venire letteralmente le lacrime agli occhi. Quante volte l’Italia è stata governata da persone che non lo meritavano, e intanto il cinema, a tutti i livelli, sapeva raccontare “la nazione alla nazione”; e quante volte – escluse le squisite eccezioni sunnominate – non lo ha fatto in questi 17 anni.
L’euforia di ogni periodo post-oscurantista di solito è veemente e al massimo si ridimensiona col tempo, come per la Spagna post-franchista. Qui, monetine a parte, siamo già tutti depressi, con un occhio alle Borse e l’altro al governo tecnocratico dell’immediato futuro. Intanto, però, vale la pena risvegliarci come società reale.