RaiStoria, venerdì 18 novembre, ore 21
Un delitto italiano
Che dire di un regista come Francesco Rosi, autore di pellicole quali I magliari, Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Cristo si è fermato a Eboli, Lucky Luciano. E questo solo per citarne alcune. Che dire se non che ci mancano tanto, oggi, artisti del suo calibro.
Nell’ambiente lo chiamavano scherzosamente “il professore”, per quella sua profonda e istintiva esigenza di chiarezza: amava rispiegare più volte le cose, il professor Rosi. E tuttavia non si riteneva tale, anzi. “Non sono un intellettuale- sosteneva -, mi ritengo un ingnorante, non me ne frega niente della storia del cinema, non leggo le riviste specializzate, sono così poco cinefilo che ho visto una sola volta La corazzata Potemkin “.
Oggi, più che mai, rivedere i suoi film è un’esperienza illuminante, e ci sentiamo nani sulle spalle di un gigante. Partecipare alla sua curiosità intellettuale, vivere la sua indignazione morale, il suo coraggio e la sua onestà nel prendere posizione e schierarsi, percepire il senso della sua profonda avversione per il compromesso: ci manca davvero un cineasta come Rosi nell’Italia piccola piccola degli anni Duemila.
Napoletano “di ceppo normanno” -come egli stesso si definisce-, classe 1922, la vita e l’arte di Francesco Rosi attraversano più di 50 anni di storia e di cinema italiani, arricchendoli di uno sguardo originale, critico e appassionato. Contributo fondamentale tuttavia da tempo dimenticato dalla stampa nazionale e da certa critica cinematografica. Formatosi alla scuola viscontiana (assistente alla regia de La terra trema, 1948), nei primi anni Cinquanta Rosi lavora come sceneggiatore per Zampa, Emmer, Giannini ed ancora Visconti (Bellissima), per poi esordire nel 1958 con La sfida: prima energica fermata di un intenso viaggio umano e civile che dalla sempre aperta “questione meridionale” lo porterà ad allargare il suo raggio d’azione ad alcuni dei principali nodi irrisolti della storia italiana, trasformando fatti, documenti e indagini in storie pulsanti percorse dalle irrequiete ricerche di una mente avida di sapere. Cineasta “condottiero”, così lo definiva Fellini, dallo stile raffinato e attento al vigore dell’immagine, Rosi suscita ammirazione in illustri colleghi soprattutto in ambito internazionale -tra i tanti Altman, Scorsese, Coppola, Resnais, Costa Gavras, Tavernier: il suo cinema, irriducibile ad una sola definizione perchè animato da una singolarissima dialettica tra finzione e ricostruzione, farà scuola nel mondo, portando onore e riconoscimenti all’Italia.
Cineasta libero e controcorrente, negli anni Sessanta-Settanta è tra i pochissimi a parlare di storia, e di storia italiana recente. Lo fa, a soli dieci anni dalla morte del Presidente dell’Eni, nel 1972, con Il caso Mattei, avanzando la coraggiosa, per quegli anni, ipotesi del sabotaggio e del complotto ed intrecciando la vicenda principale con quella del giornalista Mauro De Mauro. Aiutato dalla ennesima interpretazione magistrale di Gian Maria Volontè nei panni di Enrico Mattei, Rosi dà vita ad un’inchiesta filmata d’autore in cui materiali di diversa provenienza (registrazioni, dichiarazioni, interviste) confluiscono verso una nuova rete di connessioni creata dalla mente del regista. Smantellata la consueta lineare concatenazione dei fatti, Rosi delinea quello che Mancino definisce “un labirinto ragionato di dubbi e verità relative”, in una prospettiva mobile continuamente soggetta a ripensamenti e riformulazioni. In definitiva, il film di Rosi non dispensa verità assolute, nè delinea un quadro completo della personalità di Mattei, e dello scenario in cui si mosse, non era questo l’obiettivo del cineasta napoletano. Il caso Mattei è invece un film politico all’ennesima potenza. Mattei è stato ucciso. E’ una raffica di accuse lanciata contro la guerra del petrolio, una feroce invettiva celata sotto frammenti di giornalismo. Schegge di un Italia in rapido cambiamento, ridotta a brandelli come i resti dell’aereo di Mattei e come le membra straziate dello stesso, del pilota Irnerio Bertuzzi e del giornalista newyorkese William McHale, precipitati il 27 ottobre 1962 alle 18.57 in località Bascapè. Frammenti, come le dichiarazioni attraverso le quali, nel corso del film, sentiamo parlare lo stesso Mattei ai giornalisti: aforismi densi, grumi di senso impastati di contraddizioni insolvibili.
Nulla ha infatti aggiunto allo scenario proposto dal film di Rosi il tentativo fatto dalla Rai con la recente fiction televisiva Enrico Mattei (regia di Giorgio Capitani, nei panni di Mattei, Massimo Ghini), se non l’ulteriore conferma di quanto il regista napoletano ci avesse visto profondamente e lontano.
Ambiziosa, l’arte di Francesco Rosi, quanto a propositi morali, idee e provocazioni lanciate; un’ arte capace di stimolare ancora e ancora una riflessione, alimentare un ampio dibattito civile e culturale: vera linfa vitale per il cinema. Un’arte che oggi ci manca, tanto.