Festival Internazionale del Film di Roma, 27 ottobre, 4 novembre 2011
Bene, mah…
Il Festival Internazionale del Film di Roma si è concluso con l’assegnazione del “Marco Aurelio” per il Miglior Film alla coproduzione spagnola-argentina Un cuento chino, diretto dall’argentino Sebastian Borensztein, che ha fatto en-plein aggiudicandosi anche il Premio del Pubblico.
“Un cuento chino” significa un racconto cinese, e la vicenda prende avvio proprio in uno specchio d’acqua del paese orientale, dove una giovane coppia è in gita in barca; la consegna dell’anello di fidanzamento è bruscamente interrotta da una mucca che piovendo dal cielo uccide la ragazza (una cosa del genere si è già vista nel bellissimo Luna Papa, film del 1999 dell’impronunciabile regista tagiko Bakhtiar Khudojnazarov). Dopo questo lancinante prologo, la visione si sposta dall’altra parte dell’oceano, a Buenos Aires, dove incontriamo Roberto, ferramenta di mezza età, introverso fino alla patologia, solitario, brontolone, nevrotico e che tende ad evitare il più possibile rapporti e contatti umani. Il ferramenta ha l’hobby di ritagliare gli articoli più strani che legge sui giornali, e conservarli in appositi album, dopo avere immaginato se stesso protagonista delle vicende da essi raccontate, in una sorta di esistenza virtuale. La sua vita cambia quando incontra il giovane cinese che noi abbiamo già conosciuto nei primi momenti del film, trasferitosi in Argentina per cercare suo zio e subito derubato da un tassista. Preso da compassione, Roberto lo ospita e lo aiuta nella ricerca, ma è presto costretto ad una convivenza forzata, aggravata dal fatto che nessuno dei due capisce una parola della lingua dell’altro.
Il rapporto tra i due crea un grande numero di problemi per il ferramenta, già di per sé nevrotico e ora ad un passo dall’esaurimento, ma, dall’altro lato, da avvio e accompagna il lungo processo di catarsi e di rielaborazione del lutto (alla fine del film scopriamo quale sia stato il drammatico evento scatenante la chiusura in se stesso del protagonista); Roberto, quindi, si riaprirà al mondo e farà ripartire la sua vita, grazie al rapporto con il giovane cinese, con le sue difficoltà e grazie al comune passato segnato da tragedie.
Questa storia di rinascita è raccontata, piuttosto che in chiave intimista e psicologica, con le armi della comicità che sottolineano l’estraneità di Roberto e del giovane cinese dal mondo e dalla vita, oltreché evidenziare i paradossi causati dalla strana convivenza. Si ride molto, e il regista mostra maestria nel gestire i tempi comici e nell’evitare di cadere nella comicità gratuita e stonata con il senso e il significato del film. Sarebbe un ottimo film, se non si presentasse il tarlo del dubbio di un’eccessiva programmaticità dell’opera, che appare un po’ troppo studiata a tavolino, e un po’ troppo “furbetta” per convincere davvero fino in fondo.