Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera
Chi non danza è perduto. L’assunto è sostanziale e lapidario, la conseguenza è un profluvio di bellezza che contagia gli occhi e il cuore. Wim Wenders torna al suolo natio e alla forma del documentario (che negli ultimi anni gli è più congeniale della fiction) per omaggiare Pina Bausch, artista imprescindibile della contemporaneità.
Ne nasce un lavoro dai contorni indescrivibili, una fusione di arti, vita e spettacolo con pochi uguali. Wenders porta la macchina da presa sul palco e trascina i ballerini nelle strade. Ci aggiunge il 3D, nella ricerca affannosa di restituire la tridimensionalità di un’esperienza “viva”, com’è quella di chi sta seduto in platea. Con la possibilità, però, di non restare confinati in poltrona, ma di girare intorno ai corpi, di pedinarli, di incollarsi ai volti. I volti sono muti, la voce è fuoricampo e parla tutte le lingue del mondo: per ogni danzatore c’è un ricordo, un frammento, un’emozione nella sua lingua d’origine. I sottotitoli hanno poca importanza, perché ciò che davvero comunica è il linguaggio creato da Pina Bausch, quel teatrodanza che salda la grazia delle coreografie all’interpretazione di un senso profondo, tramite la plasticità dei corpi, l’intensità degli sguardi, i segni del tempo che passa ma che non cancella la necessità indelebile di danzare il mondo. Il film viaggia su quattro binari (quattro balletti, quattro stagioni, quattro elementi). Il primo binario è il teatro: si apre nello spazio vuoto di un palcoscenico spoglio e lavora d’accumulo, riempiendolo di terra, d’acqua, di pietra, di oggetti moltiplicati in serie (le sedie di Cafè Muller), di movimenti che si ripetono fino allo sfinimento, di muscoli tesi, di pelle che invecchia. Quattro tra i più importanti spettacoli coreografati da Pina Bausch – dalla terrea primitività di La sacre du printemps all’automazione alienante di Cafè Muller, dall’accusatoria denuncia di un corpo/oggetto/macchina di Kontakthof all’esplosione vitale e vigorosa di Vollmond – che Wenders fa reinterpretare ai membri della compagnia ad uso esclusivo della sua camera stereoscopica. Il secondo binario è il mondo: la danza esonda, fugge dalla sala, incontrollabile energia che si rovescia nelle strade, nelle piazze, in un parco, in un canyon, in un deserto. Il mondo intero si fa oggetto di scena. Il terzo binario è l’io: quello dei ballerini che si raccontano, che narrano una danza che è disciplina, ma soprattutto ricerca di se stessi, di senso, di vita. L’ultimo binario è il tempo: primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera. Filmati rubati di una Pina che da giovane si fa vecchia, un corpo asciugato e teso, ma sempre instancabile e indomito. E questo gruppo che le cresce attorno, una famiglia allargata, senza età e con tutte le età dell’esistenza. Mai sazio, mai stanco. Eccolo, il “miracolo”: l’arte effimera per eccellenza si fa solida, sostanziandosi in una pellicola capace di riprodursi in una resa non piattamente documentaria ma fieramente esperienziale. Pina ci riempie gli occhi del lavoro incessante e irrefrenabile di Pina Bausch e del suo ensemble, una ricerca esistenziale infinita, un dialogo continuo, quotidiano e mai taciuto con gli oggetti, i paesaggi, gli altri: essenzialmente, vivere.
Pingback: Le meraviglie - Mediacritica – Un progetto di critica cinematografica