La troppa distanza
E’ un film ambizioso, Il mio domani di Marina Spada, a partire dalle evidenti ispirazioni da rintracciarsi nel cinema d’autore degli anni Sessanta, in Antonioni in particolare. La storia, d’altra parte, vi si confà: in una Milano poco riconoscibile e asettica si muove Monica, tra il lavoro, la casa e le visite in campagna al padre. Monica è una manager motivazionale, che meccanicamente infonde filosofia spicciola in altri futuri manager di grandi aziende.
Peccato che il film soffra di diversi problemi, a cominciare da una regia che insistendo su uno stile predefinito non fa altro che svuotare la propria grammatica fatta di piani fissi, fuori campo che vorrebbero essere pregnanti, improvvise e didascaliche riprese circolari nei momenti conviviali o di confronto.
Monica è appropriatamente premurosa col padre, ma il suo misurato affetto lo riversa soprattutto su un nipote adolescente ipersensibile e fragile; però non c’è spazio per indagare a fondo questo unico legame sincero; lavorando per sottrazione ed ellissi il film vorrebbe lasciare allo spettatore il compito di colmare i vuoti, ma manca nelle immagini concesseci lo spessore necessario per illuminare il non detto. Anche l’interpretazione di Claudia Gerini, alla prima prova come protagonista assoluta, appare inadatta, se non negli sguardi, nel tono della voce e nei movimenti, che tradiscono un’artificiosità che eccede l’apatia di Monica. Lei non è conformista, non è ribelle, non è felice: tiene la via che si è scelta senza eccessivi deragliamenti, la casa d’infanzia come rifugio di pace, un amante irrispettoso sul posto di lavoro, le aspirazioni artistiche convogliate in un corso serale di ritratto fotografico adatto anche a fornire altre avventure occasionali, niente a cui legarsi troppo. Come sempre, le motivazioni di una tale disaffezione alle emozioni sono da ricercare in un passato familiare doloroso, in un abbandono e nella conseguente coltivazione di un odio. Ma la determinante figura del padre è poco approfondita, e la spiegazione del dolore è affidata solo alle parole, durante l’unico sfogo di Monica. La molla del lutto dirige il film verso un finale conciliatorio, che appiattisce il conflitto interiore e distanzia ulteriormente il coinvolgimento emotivo. Troppo facile il “domani” di Monica; troppo comodo abbandonare il lavoro e ricominciare a vedere e a sentire di punto in bianco, sistemando le questioni irrisolte attraverso lasciti simbolici, andando a ricercare la conciliazione col passato laddove la madre assente aveva sperato in una libertà “sbagliata”.
Anche il disegno interessante di un mondo del lavoro fondato su rassicuranti bugie resta solo un abbozzo; tutto ciò che rimane sono le belle immagini di una Milano che crea e alimenta solitudini e le rispecchia nella sua bruttezza, mentre il racconto di quelle solitudini rimane in sospeso, in attesa che se ne occupi un altro film.