Festival Internazionale del Film di Roma, 27 ottobre, 4 novembre 2011
Capitano, oh mio capitano!
Tra gli eventi speciali di quest’ultima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma c’è stata la proiezione del documentario 11 metri, diretto da Francesco Del Grosso e dedicato ad Agostino Di Bartolomei.
Di Bartolomei è stato un importante centrocampista della Roma, di cui fu il capitano del secondo scudetto (1982/83) e della drammatica finale di coppa campioni persa, per tragica ironia del destino proprio all’Olimpico, l’anno successivo. Appese, nel 1990, le scarpe al chiodo, cerca di aprire un centro sportivo nel Cilento, trovando però parecchi ostacoli, e di rientrare nel mondo del calcio, senza successo. Il 31 maggio 1994, dieci anni dopo la finale persa, Di Bartolomei si uccide sparandosi in testa.
La scelta di dedicare un evento speciale ad uno dei giocatori più significativi della storia della più importante squadra cittadina è una conferma del forte rapporto “localistico” che unisce il giovane festival capitolino alla città (sul cui, per inciso, fascino la kermesse sembra puntare molto per avere uno spazio importante tra i festival cinematografici, nonostante la giovane età e un’offerta complessiva non eccezionale), alla sua storia recente e ai suoi personaggi più simbolici (nella stessa direzione vanno, per esempio, i documentari dedicati a Franco Califano, a Laura Betti e a Riccardo Cucchi, il giovane morto tra le braccia della polizia romana). Questo aspetto è sottolineato anche dal fatto che Di Bartolomei fu il primo capitano giallorosso ad essere anche “romano d.o.c.”, nato e cresciuto, anche calcisticamente, nei campi in terra battuta di borgata.
11 metri parte proprio dai primi calci nel campetto dell’oratorio sotto casa, quando già sembrava notevole la potenza del tiro, per seguire poi un percorso cronologicamente lineare, che separa le varie fasi della vita e della carriera. Le testimonianze della moglie, dei figli, dei compagni di squadra, degli amici, di persone legate al club giallorosso, di ammiratori famosi (Venditti), di giornalisti sportivi e di personaggi legati all’infanzia come il prete dell’oratorio convergono nel ricostruire e delineare una personalità complessa, e a dare qualche ipotesi sui motivi che hanno spinto all’estremo gesto: ne esce un ritratto variegato, dove decisiva sembra essere la difficoltà di aprirsi e l’interiorizzazione estrema della rabbia e dei problemi, cose che lo hanno reso enigmatico a parenti e amici. Viene, inoltre, indagato il legame con la città e la squadra, che sarà decisivo anche negli ultimi anni di vita.
Tutto questo in una costruzione cinematografica non inventiva, molto tradizionale, sia per le ambientazioni che per come viene inquadrato chi parla; sono così al centro dell’attenzione le testimonianze e gli aneddoti, e le azioni del calciatore. Il risultato è, così, quello di apparire attraente solo per chi è già attirato dall’argomento o dal personaggio (chi scrive è tra questi), senza dare però suggestioni a tutti gli altri. Una presenza stilistica più evidente avrebbe anche conferito la maggiore caratura tragica che il personaggio meritava e che aveva già ispirato Sorrentino per L’uomo in più .