Resistenza civile, Resistenza artistica
“Parigi, settembre 1942. Da due anni l’esercito tedesco occupa la metà nord della Francia. La divisione tra la zona occupata e la cosiddetta ‘zona libera’ costituisce una specie di frontiera che attraversa orizzontalmente il Paese.
Nella zona occupata il coprifuoco svuota le strade dopo le 23, e per i parigini è estremamente importante non perdere l’ultimo metrò. Poiché hanno fame, i parigini attendono ore per comprare un po’ di roba da mangiare, e dato che le loro case sono fredde, si pigiano ogni sera nei luoghi di spettacolo”. È in questo contesto che si sviluppa la storia del teatro Montmartre e di tutto il gruppo di attori e maestranze che vi ruota attorno. A partire da Marion, direttrice che nasconde nei sotterranei il marito Lucas Steiner, regista ebreo ricercato dai nazisti. Costretto al chiuso e alla frustrazione (nei cruciverba che compila per passare il tempo compare la definizione “simbolo di bassezza, sei lettere: semita”), l’uomo dirige la compagnia per interposta persona e inizia a programmare la fuga assieme alla moglie, che nel frattempo si destreggia con abilità tra i sospetti della Gestapo. L’arrivo nella compagnia del giovane attore Bernard Granger scompagina però le carte in tavola, complicando assai la vita privata della donna. Nazionalsocialismo, passione per lo spettacolo e – come già in Fahrenheit 451 – lotta contro la sopraffazione autoritaria: nel pieno della sua maturità artistica (eppure a soli quattro anni dalla prematura scomparsa) François Truffaut attinge ai ricordi della propria infanzia, oltre che ad un poderoso lavoro di documentazione storica. Sono proprio la spontaneità e la sensazione di “verità” gli elementi che più colpiscono, nonostante l’opera sia stata quasi interamente girata in interni e nonostante il continuo cortocircuito meta-cinematografico/teatrale degli “attori che recitano una recita”. L’ultimo metrò è un luminoso esempio di come un cinema costruito sulla base di un’unità di luogo teatrale non solo non impoverisca il linguaggio della cinepresa ma addirittura lo arricchisca, facilitando l’introduzione di meccanismi narrativi a sorpresa e di piccoli intrighi disseminati lungo lo svolgimento. Benché la protagonista sia Catherine Deneuve, è al personaggio interpretato da Gérard Depardieu che vengono affidate le sottotracce più trasgressive e stimolanti: dalla probabilità che sia anch’esso ebreo al rapporto mai chiarito con la direttrice del teatro, fino addirittura ad una possibile omosessualità, mai dichiarata apertamente. Ma tra le righe emerge un altro dilemma, legato anch’esso a Granger/Depardieu e incentrato sulla dignità dell’Arte: durante i tempi di emergenza è necessario fare il proprio mestiere o il proprio dovere? È in questa tensione ideale tra utopie creative e obbligo morale di agire e lottare che Le Dernier métro trova la sua fondamentale ragion d’essere.
L’ultimo metrò [Le Dernier métro, Francia 1980] REGIA François Truffaut.
CAST Gérard Depardieu, Catherine Deneuve, Jean Poiret, Andréa Ferréol.
SCENEGGIATURA François Truffaut, Suzanne Schiffman, Jean-Claude Grumberg. FOTOGRAFIA Néstor Almendros. MUSICHE Georges Delerue.
Drammatico/Storico, durata 128 minuti.