Cult, domenica 30 ottobre, ore 14
Il sogno di Carlito
Il sogno di Carlito comincia sulla strada, nell’inferno portoricano di New York city. Di una genealogia molto diversa dai malavitosi di Scorsese e dai padrini di Coppola, il Carlito di Brian De Palma è un criminale insolito, depositario di una consapevolezza del tutto peculiare.
Gli ultimi cinque anni trascorsi in carcere lo hanno cambiato, e ora Carlito ha un sogno: rimanere pulito, stare fuori dal giro e lasciare New York. Ricominciare lontano da tutto, su una piccola isola delle Bahamas: l’isola Paradiso. Ingenuamente però Carlito commette l’errore di fidarsi delle persone sbagliate, pagandola estremamente cara. Assolto dalla pena di trent’anni di reclusione grazie ai trucchi dell’eroinomane avvocato Kleinfeld – uno Sean Penn straordinario nella caratterizzazione del personaggio simbolo di una morale ormai irrimediabilmente degenerata – dopo essere stato coinvolto, per caso, in una sparatoria (sequenza morabile quella del tavolo da biliardo), Carlito compie il primo passo verso il baratro accettando la proposta di gestire il night club “El Paraiso”. Da quel momento in poi, tutto è una progressiva perdita di controllo degli spazi e del tempo. Dilatato e frammentato da De Palma con raffinata maestria, il tempo di Carlito sfugge e scivola via come risucchiato da un gorgo. E’infatti un vero e proprio vortice quello che la macchina da presa disegna attorno al corpo del protagonista all’inizio del film: i suoi occhi che seguono le luci dei neon nel lungo corridoio della Grand Central Station; Carlito immobile sulla barella, l’amata Gail (Penelope Ann Miller) che piange. E’ soprattutto in quell’avvitamento del braccio-obiettivo che sentiamo il destino che incombe sulla volontà, il trionfo di quel fatalismo anarchico da cui Carlito non ha, suo malgrado, mai potuto prescindere.
Abbiamo assistito infatti ad una commemorazione, guardando Carlito’s Way. Ce lo confermano la voce fuori campo dello stesso protagonista che accompagna la narrazione, e la sequenza in cui, sotto il diluvio e protetto dal coperchio di un secchio dei rifiuti, Carlito assiste -quasi da un’altra dimensione- ad un’esibizione di Gail nella scuola di ballo.
Scritto da David Koepp e ispirato ai romanzi Carlito’s Way e After Hours di Edwin Torres, con Carlito’s Way De Palma e Pacino scrivono una pagina indimenticabile di cinema, lavorando ad una rilettura del genere noir che, affrancandosi dall’impronta data al precedente Scarface, passa interamente per il personaggio interpretato da Pacino, facendo di questo lavoro “il” suo film per eccellenza all’interno di quella che si delinea essere come la sua seconda giovinezza di interprete.
E se Pacino dà corpo e anima alla tagedia dell’individuo stretto nella convergenza di forze inesorabili, infondendo al personaggio l’aura di vero ultimo eroe, dal canto suo, al meccanismo inesorabile del fato De Palma oppone la libertà della macchina da presa di partecipare al dramma lottando al fianco di Carlito in qualità di vero e proprio personaggio. Inquadrature oblique, soggettive, zoom, panoramiche circolari e lunghi piani sequenza continuamente segnano la claustrofobia che pesa su Carlito e il suo costante bisogno di liberazione da quell’oppressione, la sua ricerca di una redenzione.
Purtroppo però Carlito non ce la fa ad uscire vivo dai meandri della Grand Central Station. Tradito dal guardiaspalle Pachanga, è freddato dal viscido e immorale Benny Blanco (JohnLeguizamo): solo ad un passo dal raggiungimento, il suo sogno si sgretola.
Nonostante ciò, De Palma non lascia prevalere un senso di nichilismo assoluto. E quando l’ultimo battito cardiaco di Carlito riporta il sorriso sul suo volto contratto e sofferente, allora il sogno si accende di vita con l’immagine di Gail che danza felice su una spiaggia assolata. Transitata nel suo grembo, la speranza del sogno sopravvive: un nuovo e migliore Carlito.