Apocalypse von Trier
La verità è che non riusciamo ad abituarci a Lars von Trier. Di solito, i film cercano la nostra complicità, puntano a un senso di soddisfazione, aprono spiragli rassicuranti anche quando si ammantano di pessimismo. Il cinema di von Trier se ne frega di tutto questo e manda in crisi le nostre categorie di riferimento.
Anche senza considerare le sue ingiustificabili e deliranti dichiarazioni cannensi, si finisce per detestarlo e bollarlo come “inutilmente provocatorio” o “dannatamente furbo”. Così la nostra coscienza è salva, quel nodo allo stomaco che non riuscivamo a slegare al termine della proiezione pesa un po’ meno, e ci sentiamo, tutti, più al sicuro.
Va così anche con Melancholia. Ambizioso come non mai, ci racconta la fine del mondo, ma toglietevi dalla testa i giocattoloni apocalittici alla Armageddon o alla 2012. Von Trier mette in piedi un castello geometrico che ha le strutture della sinfonia. Si comincia con un’ouverture potentissima, ricalcata sul prologo di Antichrist, fatta di ralenti esasperati, visioni immaginifiche e una colonna sonora in crescendo fino ai limiti del sopportabile. Dieci minuti in cui c’è già tutto il film: il pianeta Melancholia si avvicina inesorabile, e non c’è speranza, né salvezza, per nessuno. Restano due ore di pellicola, divise in due capitoli speculari e antitetici. Nel primo, von Trier torna a imbracciare la camera a mano del Dogma, e si incolla al volto di Justine, pedinandola nel giorno delle sue nozze, organizzate dalla sorella Claire. Il regista danese filma una felicità fasulla che si sgretola a contatto con un’umanità decadente e meschina. Odiamo Justine, che ha tutto eppure è triste e manda in vacca matrimonio e carriera; la odiamo con l’intensità che solo un devastante senso d’impotenza può instillarci. Un senso d’impotenza che si fa universale nella seconda parte, dedicata a Claire. C’è un pianeta azzurro, nel cielo, meraviglioso e raccapricciante, che cammina inevitabile verso la Terra, e fa fallire ogni cosa, fede e scienza comprese. Justine, inadeguata alla vita, è completamente a proprio agio con la morte imminente, mentre Claire, altruista e comprensiva, perde ogni coordinata. Sì, Melancholia è un elogio della depressione, disturbante e disperato, e per questo ci irrita e ci infuria.
Ma la fine del mondo arriva per tutti, presto o tardi, sotto forma di un pianeta azzurro o, molto più probabilmente, della morte. Il nero dei titoli di coda ci scaraventa implacabile contro il muro di questa consapevolezza, tagliandoci ogni via di fuga. E Lars von Trier si riconferma Autore, nel senso più “Nouvelle Vague” del termine: persegue una sua politica, incurante dell’altrui piacere, e ci obbliga a indagarci nel profondo, senza lasciarci scampo. E lo si ama (o lo si odia) tutto intero, fosse anche solo per il coraggio (o la megalomania?) di far coincidere la fine del mondo con la fine di un suo film.
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