Forse “di folle leggerezza fu promettere”
Un luogo di ritrovo,universo a sé, un bouquet di matite ben temperate, dove tutti si conoscono, capiscono, prendono in giro, dove i clienti bevono, giocano a carte, a flipper, parlando di donne e di calcio; questo è il Bar Sport.
Ti aspetti che Bar Sport, il film di Massimo Martelli, documentarista e autore televisivo, ti regali quell’universo lì che avevi letto nell’omonimo libro di Stefano Benni (uscito nel 1976), e che avevi plasmato a immagine e somiglianza del tuo “locus amoenus”. Ovviamente, non è così: tutto prende un’altra forma, un altro colore, tutto ha un Volto. Il barista, tanto avaro da esser chiamato Onassis, ha il corpo di Giuseppe Battiston, il “tennico” Eros, cialtrone e “so tutto io”, è Claudio Bisio, il buon Bovinelli-tuttofare ha le fattezze di Antonio Cornacchione, il cinico Muzzi è Antonio Catania; tutti questi personaggi prendono forma sotto l’insegna Bar Sport. Non è facile realizzare un film, partendo da un’opera originale per la sua surreale ironia e antropologicamente complessa come l’opera di Benni, né scrivere una sceneggiatura, a cui ha lavorato lo stesso scrittore assieme a Alvau/Pecorelli/Pellegrini, tratta da un romanzo fatto di episodi, universi aperti e chiusi su una pagina, figure immaginifiche, animate, potenziate dalla forza della parola. Martelli materializza un flipper, il “Busso”/“Striscio”/“Volo”/“Brucio”, un biliardo, elementi che Benni investiga fin alle viscere degli ingranaggi, e il regista prende qua e là dal libro, passando dal playboy/Teo Teocoli al calciatore Piva – raccontatoci, come l’episodio del ciclista Pozzi, con un’animazione, divertente e coinvolgente -, corre sulla bici del piccolo Cinno scivolando sulle curve della Carla/Aura Lorenzetti. Se nel libro vengono raccontate tipologie umane che tutti conosciamo, trovandole nel nostro bar, nel film invece gli attori, bravi e nella parte, sembrano sovrastare il Ruolo, diventando macchiette che rappresentano un’individualità ben precisa: il “tennico” non è un borioso “a caso”, né “l’anima, il sangue, l’ossigeno” di ogni discorso da bar, ma un capocomico, divertente e pelato, come il conduttore di Zelig; Bovinelli non è tanto il tutto-fare quanto il pasticcione che da dieci anni tenta di accendere le luci dell’insegna, concentrando tutto sull’espressione tra riso e pianto dello sketch “povero Silvio”. Non è sicuramente La Luisona, ma è un’opera godibile, non ci troviamo nel Bar Sport libresco da cui tutto prende le mosse, è semplicemente un’altra cosa.