Oggi shopping, cambio pelle!
Una donna distesa sul letto legge un libro. Un monitor racchiude la sua immagine all’interno di una cornice. Zoom-in, e dalla figura intera si passa ad un primo piano tremante. Vera, la nostra “Venere distesa”, guarda in camera e fissa il proprio osservatore. Lo sguardo è commosso e gli occhi pieni di lacrime.
Imprigionata in una stanza, spiata dalle telecamere orwelliane di un chirurgo megalomane, e protetta solo da una tutina color carne si offre allo sguardo del proprio carceriere rendendosi oggetto del desiderio. Un modo per proteggersi e, forse, per salvarsi. “Ti piace quello che vedi?” chiede Vera al dottor onnipotente (Robert Ledgard/Antonio Banderas), ma il progetto -purtroppo- non è quello di raccontare il rapporto tra vittima e carnefice. Un tocco di grottesco con la comparsa dell’uomo-tigre, figlio della domestica dalle “viscere malate” e fratello del dottor onnipotente, un po’ di sangue e si va avanti. Già guarita dalla violenza subita Vera (Elena Anaya) chiede allo scienziato un po’ di complicità: l’apertura della propria cella d’osservazione in cambio di fedeltà ed obbedienza.
Lo sguardo commosso non lo ritroveremo più, se non alla fine. Almodòvar cambia un po’ meccanicamente la prospettiva abituale imponendo ad un personaggio abbozzato (Vicente/Jan Cornet) la figura di una donna. Il dolore di vivere in un corpo non proprio svanisce semplicemente in questo. Non conosciamo Vicente nel corpo di Vicente, il dramma dunque non può esistere. Il dolore di vedere manipolata la propria immagine e di vedersi imposto il riflesso di un’altra persona non può affondare radici profonde nello spettatore. Conosciamo Vera e Vicente come due persone separate, identità, abitudini, due nomi diversi. Nello sguardo di lei/Vera non c’è niente di lui/Vicente che si è visto drogato, legato, imprigionato, mutato. Non c’è tensione, né odio, né attaccamento alla propria immagine e alla propria identità. Il rapimento, gli affetti e gli anni rubati svelano -solo alla fine- ben poco amaro.