68a Mostra del Cinema di Venezia, 31 agosto-10 settembre 2011
La libertà degli occhi
Frederick Wiseman è un regista che si rinnova in continuazione. In quasi cinquant’anni di carriera ha registrato le reazioni umane più diverse, senza rinunciare alla necessità di uno sguardo rigoroso nel metodo e spurio di qualsiasi convenzione.
Un rigore che non interviene mai direttamente perché si impone di osservare in silenzio, e così non conosce il protagonismo del narratore, né l’esigenza di usare la voce per raccontare un punto di vista, né di commentare con la musica il tessuto visivo: ciò che non è immagine documentata o sonoro in presa diretta non ha valore nei suoi film perché non è capace di restituire la realtà dell’esperienza vissuta. Eppure questo cinema intessuto nell’oggettività, così fedele ai propri principi, ha il dono di una spontaneità quasi introvabile, e forse unica nella storia del documentario: la pazienza e la perseveranza di Wiseman vengono ricompensate con uno sguardo che non si pone limiti di tempo, che abbraccia liberamente qualsiasi soggetto riguardi l’uomo, che non pretende di dimostrare teoremi.
La sua opera ha indagato Welfare e scuola superiore, assemblee legislative e primati, missili e ospedali, manicomi e monasteri. E anche la danza, nelle sue forme documentaristiche più nobili (La Danse), o impensabili, come nel suo ultimo film, Crazy Horse, che ha inaugurato le “Giornate degli autori” del Festival di Venezia. Crazy Horse stupirà chiunque, anche chi non conosce il noto locale parigino di cabaret, anche chi ha già visto i film di Wiseman e crede di saper individuare le caratteristiche del suo cinema. Perché? Perché mai prima d’ora una danza erotica è stata anatomizzata in ogni singolo aspetto, dall’esecuzione alla creazione, passando per l’organizzazione e la preparazione dell’Eros coreografato; perché mai prima d’ora la sobrietà di Wiseman è stata tanto violata dall’istinto fotogenico verso il corpo di donna, la bellezza, la sensualità simulata.
L’Eros è un’arte fisica: un’arte talmente raffinata da eludere la pornografia e il ridicolo; talmente preparata da risultare naturale, per poter essere consumata in un locale davanti agli occhi dello spettatore. Wiseman, per la prima volta nella sua carriera, osserva il fenomeno che ha davanti non con l’imperturbabilità di un testimone ma con lo sguardo ammirato di un’esteta ignaro dei suoi ottantadue anni: l’Eros come spettacolo non solo lo turba, ma fa qualcosa di più, lo affascina, e così lo incuriosisce a tal punto verso le effusioni e i meccanismi di seduzione del corpo che la consueta “giusta” distanza con cui registra il soggetto filmato sembra essere compromessa. I suoi primi piani infatti non hanno più niente di oggettivo quando filmano la danza, ma, al contrario, sono momenti di ammirata soggettività in cui le luci e i riflettori riscrivono le forme del corpo dove la macchina da presa si posa.
Per Wiseman questo significa molto. Significa aver indotto il documentario, e il suo modo di fare documentario, a varcare le possibilità più estreme degli occhi, ed essere solo sguardo. Come se Wiseman, a questo punto della carriera, volesse suggerire che lo sguardo è il tema, la forma, la libertà, il segreto e l’eredità del documentario. Uno sguardo ritornato ad una giovinezza quasi adolescenziale con cui guardare e riguardare ogni cosa e ogni turbamento, capace di liberarsi dall’istintività della mente, e di affidarsi al puro piacere di contemplare una “piccola” arte esibizionista ancora in cerca di legittimazione – come la danza erotica appunto – attraverso gli strumenti e la sensibilità dell’Arte matura.
Grazie a questa curiosità e a questa giovinezza, Crazy Horse è probabilmente il più importante film che il regista abbia fatto sull’arte (e sul cinema), anche più del precedente La Danse: nel suo ultimo lavoro l’arte vive in ogni momento, dalle riprese delle esibizioni ai semplici comportamenti di routine comuni a qualsiasi “making of” di uno spettacolo, ed è libera come non mai di esprimersi osservando e osservandosi, cercando continuamente di meravigliarsi, di trasformarsi, di discutere e criticare sé stessa, di riconoscersi come universo a parte con le sue regole uniche. Wiseman sembra dirci che non c’è limite alla definizione di arte, ma anche di documentario e di cinema, perché il suo sguardo è privo di abiezioni morali o sessuali, come se fosse un gioco che ha soltanto l’esigenza di cercare la verità, e a partire dalla verità cercare la bellezza. Qualcuno potrebbe indignarsi per il trattamento continuo del nudo, proponendo una riserva morale o criticando il film di esibizionismo. Eppure non c’è una sola sequenza di Crazy Horse che voglia essere provocatoria per puro gusto, o per semplice immoralità, perché il film di Wiseman non prende un’inutile posizione morale: non ha senso condannare o nascondere l’erotismo se è una componente integrante dell’uomo, però si può ammirarlo come gesto artistico. In fondo ciò che nel documentario del regista americano rivelano glutei che si alternano per simulare le onde del mare, o uno striptease in cui i riflettori disegnano dei pois sui nudi di donna, può essere riassunto dalle parole con cui il direttore artistico del locale cerca di esprimere la sua attività: partecipare e assistere a questo spettacolo significa provare, o cercare di provare, quella rarità seduttiva e visivamente unica che nasce dalla combinazione tra trucco e naturalezza, o da un trionfo femminile, e che in una vita può emergere altrimenti solo guardando i film di Fellini, Fassbinder, Powell, o Shanghai Express.
Ma c’è ancora una cosa che rende unico il documentario di Wiseman, e che forse si può percepire soltanto con la voglia del regista di cercare la meraviglia aldilà del soggetto, come un pittore che manipola il suo quadro su commissione per renderlo un’opera d’arte. È la stessa ispirazione con cui due mani possono diventare due innamorati che si baciano per la prima volta: il documentario, dopo il rigore della danza, può conoscere la danza della poesia.