DVD, CANADA 2009
Anche la Morte è questione di Vita
Se non si conosce l’ombra non si può conoscere la luce, se non si conosce la morte non si può conoscere la vita; è questa l’idea “filosofica” da cui parte Un soffio di vita – che ha partecipato e vinto il premio della Giuria alla 28a edizione del Torino Film Festival – di Sophie Deraspe, film del 2009, uscito in Italia direttamente in dvd e mai nelle sale.
Ci sono dei momenti in cui la paura t’assale, l’ansia ti prende e ti porta via, quando cammini per strada, quando ritorni a casa, ed è questa la vita di Simone, interpretata dalla brava Marie-Hèlène Bellavance, la protagonista del film ed è un po’ anche la nostra. Scopriamo chi è Simone a poco a poco, ed è come conoscere un nuovo amico: la morte della nonna, le protesi alle gambe, il volontariato nell’ospedale per malati terminali, la “storia di passione” con Boris/Francis Ducharme, l’uomo che la cerca di notte, di giorno, perché pretende di “sapere”. La giovane donna crea con i malati un rapporto intenso, intimo, un lungo dialogo fatto di fede, fiducia, “eterna veglia” – portando il fardello dei ricordi – per chi resta, eterna dolorosa protezione per chi se ne va. La macchina da presa indugia sui corpi, ormai abbracciati e abbruttiti dal rigor mortis, fissati nell’attimo in cui il “viaggiatore mortale” si è reso conto di essere arrivato al capolinea – o di aver appena iniziato il viaggio – ma anche in quell’espressione che turberà e scuoterà dal di dentro chi sopravvive. Mentre “la vita degli altri”, o meglio la “morte degli altri”, l’arricchisce, facendola sentire meno in colpa e fiera di ciò che è diventata – riponendo in fondo ad un cassetto laurea e il “suo prima” – dall’altra parte Simone, in un atto autolesionistico, cerca di distruggere, smembrare, fare a brandelli il rapporto con Boris, l’unica persona che esiste al di là delle mura ospedaliere, “rinuncia a se stessa”, imputa al compagno di non esserci per lei, di aiutarla a parole ma non con i fatti, di non vivere ma solo esistere, non rendendosi conto che il malessere è in lei e che non è lui che non dà ma e lei che non permette. È un film tenue, duro ma non brutale; quella della Deraspe è un’opera – che si iscrive ad una certa filmografia canadese, come Il dolce domani di Atom Egoyan, Away from her-Lontano da lei di Sarah Polley e Le invasioni barbariche di Denis Arcand, interessata al tema della morte e a cosa viene dopo – che ci cheta e ci sconquassa, che non vuole spaventare ma solo raccontare, ci mostra con pietà e senza il “moralismo della paura” l’amputazione di Simone, le trasformazioni del corpo, le bende che celano la caduta dei capelli, gli occhi gonfi, gli arti in cancrena, ma ci dimostra che, anche nell’ultimo istante, c’è sempre un soffio vitale, un estremo afflato che ti rende vivo, paradossalmente anche quando la vita ti sta lasciando. La morte qui non è “qualcosa” da eroi, è una res naturalis, un accidente che fa male, ma che tocca a tutti, un evento che serve da antalgico per il corpo martoriato e dolente dei malati, qualcosa di necessario; e Simone si prodiga cercando di rendere più sereno il trapasso dei degenti, ma capiamo che questa sua dedizione è più un riempire il vuoto “di vita” che lei sente, un sentirsi piena di quell’energia e quella voglia “d’Essere” che è in lei mancante, uno stemperare i lividi e le ferite che lo scorrere dei giorni hanno impresso sulla sua anima e sul corpo degli ospiti della casa di cura. “Finché non siamo morti abbiamo bisogno della compagnia dei vivi” questo dice un paziente alla giovane, ma è più il contrario, è Simone che, in questo percorso di autoanalisi e “automedicazione”, trae forza da coloro che le stanno attorno. In questa semiotica del dolore la Morte, vista come accezione naturale e necessaria, perde ogni connotazione drammatica e romanticamente “metafisica” e diventa Buona Madre che accoglie tra le braccia il bimbo che, dopo aver troppo giocato, torna a casa e in lei si rifugia e si abbandona.