68a Mostra del Cinema di Venezia, 31 agosto-10 settembre 2011
Miopia
Peccare di presunzione e rivendicare la propria “autorialità” sono due delle peggiori caratteristiche che un artista può avere. Ok, è bello far vedere che sai usare i mezzi che hai a disposizione e, se fatto con stile e reverenza, è interessante l’omaggio a chi ha ispirato la tua opera, però la forma senza sostanza spesso traballa.
Daniele Gaglianone con Ruggine ha fatto tutto questo perdendo la sua scommessa, smarrendo lo smalto che contraddistingueva le sue opere precedenti.
Il film, presentato aall’ottava edizione delle Giornate degli Autori alla Mostra del Cinema, è un esercizio di stile che, pur raccontandola coraggiosamente, abbandona la vicenda centrale. Gaglianone si perde, nel narrare l’ “interessante avventura” di alcuni bambini nella Torino del boom economico tratta dal libro omonimo di Massaron, e ci regala un film ingarbugliato e poco riuscito; il regista sottolinea la sua autorialità piuttosto che mettersi al servizio della storia e dei personaggi. Confonde la tecnica con lo stile continuando in tutta la pellicola a farci vedere come sa maneggiare la macchina da presa e si dimentica che il cinema non è soltanto immagini in movimento. Omaggia esempi alti del cinema come M-il mostro di Dusseldorf, La morte corre sul fiume e, perché no, Non si sevizia così un paperino di Fulci (soprattutto nella caccia al “mostro” e l’ambientazione rurale), ma in questa operazione perde di vista il suo film. Gaglianone alterna, complicando senza motivo la trama, passato e presente senza soluzione di continuità e utilizza un meccanismo di causa/effetto riduttivo. Si fatica a pensare che i personaggi adulti interpretati da Valerio Mastandrea, Valeria Solarino e Stefano Accorsi abbiano avuto un’evoluzione psicologica così riduttiva. Le loro sequenze sono banalmente rappresentate e si servono di elementi spesso ridicoli (basti pensare al gioco di Accorsi con il figlio sul drago nero o al consiglio di classe della prof. Solarino) per spiegare come gli eventi vissuti da bambini abbiano segnato in modo indelebile le loro esistenze. Si parla di temi seri come l’emigrazione dal sud e la pedofilia, senza approfondire e cadendo spesso nel comico involontario. Il dottore/orco Timi è una macchietta che con grugnito maialesco preannuncia il suo arrivo come il fischio di M o il canto di Mitchum nei film citati, ma più che incutere terrore fa sorridere dà al troppo sfruttato attore perugino un ruolo da dimenticare in fretta. Tutti i personaggi non hanno le tracce nascoste di un trauma come ci si aspetterebbe, ma ne esibiscono i segni attraverso ritrosie sociali e comportamenti poco approfonditi. Dispiace dover parlare male di Ruggine, perché sarebbe anche un film “diverso”, ma è ciò di cui il cinema italiano non ha più bisogno; un ritorno al cinema intimista, autoriale in senso negativo e, perdonatemi il termine volgare e ridondante, pieno di pippe mentali e stilistiche. Dovrebbe essere “un film sull’infanzia, visto con gli occhi dei bambini”, invece è un film sull’infanzia vista attraverso gli occhi di uno psicanalista miope.