Locarno, 3-13 agosto 2011
Uno sguardo al futuro. E intanto godiamoci il film con la luna piena
Il festival di Locarno, come ogni anno, ha presentato un programma ricco e variegato, ma con un comune denominatore di fondo che lega le varie sezioni: la ricerca di nuovi talenti, di nuovi sguardi, e lo studio e il sostentamento di cinematografie poco conosciute o alla ribalta negli ultimi anni, che trovano sulle rive del lago Maggiore spazi meno ristretti di altri festival.
Da questo punto di vista è significativa l’iniziativa “open doors”, con cui ogni anno vengono sostenuti progetti di cinematografie in via di sviluppo, permettendo loro di trovare finanziatori e produttori, e che quest’anno ha visto protagonista l’India. Il concorso internazionale ha riflettuto queste tendenze di fondo: a esso hanno partecipato registi giovani, in media al secondo o terzo lungometraggio, e che, escluse un paio di eccezioni, non superano i quarant’ anni di età. Il livello della sezione è stato buono, anche se non eccezionale, con molte opere interessanti e promettenti, e tre o quattro film particolarmente riusciti. Molti di questi analizzano il singolo, e interiorità di vario tipo sono state il soggetto preferito delle opere in concorso, con il politico e il sociale assenti o in secondo piano (con l’eccezione di Vol special, dello svizzero Fernand Melgar, il film più chiaramente impegnato): vediamo quindi ritratti di individui disadattati (Derniere Seance, di Laurent Achard, il film più di genere e citazionista, storia di un serial killer cinefilo, con la mente in cui cinema e realtà tragicamente si fondono), o in crisi per una passato che non passa (Mangrove, di Frederic Choffat e Julie Gilbert); inquietudini adolescenziali (Terri, di Azazel Jacobs, esempio di “cinema Sundance”; Onder Ons, dell’olandese Marco Van Geffen, che racconta la stessa storia da tre punti di vista differenti, cercando, con buoni, anche se un pò “timidi”, risultati, di unire la costruzione del giallo all’analisi psicologica; Abrir puertas y ventenas dell’argentina Milagros Mumenthaler, discreto film sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta), e un rapporto che inizia a scricchiolare nella natura selvaggia delle montagne della Georgia (The loneliest planet, di Julia Loktev, brava nel raccontare lo sviluppo del rapporto in relazione al paesaggio, con una prima parte particolarmente riuscita, e una seconda più claudicante).
Il sociale e il politico perlopiù sembrano in disparte, o vengono veicolati e trasmessi da storie intimiste, come nei già citati in queste pagine Sette opere di misericordia e soprattutto in Tanathur, ma anche come nel film d’animazione rumeno Drulic, di Anca Damian, che usando tecniche differenti, racconta la vera storia di Crulic, rumeno ingiustamente accusato di un furto in Polonia e morto in carcere a seguito di uno sciopero della fame. Queste ultime tre sono le opere più riuscite, che hanno mostrato cineasti con uno sguardo nuovo e sicuro, capaci di dare potenza e senso alle immagini, con uno stile proprio ma senza conformismi da malintesa idea di cinema d’autore e “da festival”, e che, pur partendo dal “privato”, riescono efficacemente a dire qualcosa sul “pubblico”. Purtroppo la giuria ha preferito rifugiarsi in una scelta meno coraggiosa: il Pardo d’Oro è infatti andato a Abrir puertas y ventenas, non un brutto film in assoluto – non mancano infatti momenti toccanti – ma un ritratto non particolarmente originale (ricorda molto il cinema della connazionale della regista Lucrecia Martel, la quale però ha ben altra forza cinematografica): certi compiaciuti silenzi, certe insistite lungaggini danno l’impressione di essere di fronte ad un prodotto “furbo”, sfornato apposta per gareggiare in un festival, e un po’ onanistico, piuttosto che volere significare la noia e i tormenti dei personaggi. Come l’ha definita un giornalista, la decisione della giuria “è una scelta autoreferenziale che pare l’autoriconoscimento di una casta, e che ha sacrificato opere di ben altro valore”. La sezione “Cineasti del presente” ha premiato L’estate di Giacomo di Alessandro Comodin, vincitore del pardo d’oro di questa sezione. Dubbi sul palmares a parte, anche quest’anno il festival tra le varie sezioni ha regalato numerose e valide suggestioni, e mostrato più di un possibile futuro protagonista del mondo del cinema, confermando quella che è la sua tradizione storica di “under 21” dei cineasti. Questo senza dimenticare le numerose retrospettive, oltre a quella principale su Vincente Minnelli, che hanno focalizzato l’attenzione soprattutto sul cinema svizzero (Villi Hermann e Claude Goretta), ma che hanno dato anche un’importante vetrina a uno dei più originali autori giapponesi: il visionario e folle Hitoshi Matsumoto, il cui ultimo lavoro, Saya Samurai, è stato presentato in Piazza Grande.
É proprio lo schermo gigante e all’aperto di Piazza Grande il cuore e il simbolo della kermesse, con un programma variegato e riuscito (il premio del pubblico è andato a Bachir Lazar di Philippe Felardeau), che ha fatto il pienone anche con il freddo e la pioggia dei primi giorni: quest’anno è stato tutto particolarmente suggestivo grazie alla luna piena, che ha reso ancora più unica la visione in questa piazza che diventa, per dieci giorni all’anno, il cinema più bello del mondo.