Dead Woman Walking…and Singing
Tanto, troppo, spesso a sproposito si è scritto e parlato in questi giorni della morte improvvisa e prematura di Amy Winehouse.
Coccodrilli più o meno sentiti, scritti da giornalisti che non conoscevano a pieno la sua musica e la sua storia, inevitabili riferimenti alla “maledizione del 27” (la stessa età in cui sono morti anche Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison e Kurt Cobain) e qualcuno che ha persino fatto sciacallaggio su questa tragica vicenda. Personaggi politicamente e umanamente imbarazzanti come Giovanardi o Forza Nuova hanno infatti strumentalizzato la sua morte per lanciare vuoti e ipocriti appelli antidroga ai giovani, lezioncine morali fastidiose e non richieste. Le case discografiche ed editrici ora si butteranno più che mai sul suo corpo ancora caldo per lanciare ristampe, brani inediti (pare che il terzo cd su cui lavorava da tempo sia già pronto) e biografie più o meno autorizzate, e sfamare così la necrofilia dei fan dell’ultima ora, in cerca del mito e della leggenda. Questo articolo vuole essere un omaggio sincero e un ricordo affettuoso a una giovane cantante di indubbio talento che, a differenza delle lolite pop all’apparenza virginali e in realtà pazze, tossiche e tutt’altro che caste, non solo non ha mai nascosto i propri problemi, le proprie dipendenze e quel mal di vivere che l’ha divorata ma anzi, li ha fatti diventare i punti cardine della propria poetica musicale. Amy Winehouse non giocava a fare la “maledetta” e la “tormentata”, onestamente e drammaticamente lo era per davvero in un’età, quella tra i 20 e i 30, così delicata e decisiva. Nel suo caso immagine divistica, figura artistica e persona coincidevano e il suo percorso musicale è sempre stato molto autobiografico, una sorta di caduta libera inarrestabile a cui abbiamo assistito in diretta e che si palesava chiaramente attraverso i testi delle canzoni, di cui lei stessa era autrice, ma anche nei suoi, purtroppo pochi, videoclip musicali.
Si pensi per esempio già al primo video, Stronger Than Me, tutto incentrato sul rapporto difficile con un fidanzato alcolizzato, o a quello di Rehab, primo singolo tratto dal suo secondo cd che l’ha resa famosa in tutto il mondo, vero e proprio manifesto e dichiarazione d’intenti anti-centro di disintossicazione, che con, cinica autoironia, termina in una camera più simile a un vecchio e fatiscente reparto psichiatrico che a una di quelle lussuose cliniche di riabilitazione da cui giovani stelline cadenti come Lindsay Lohan entrano ed escono in continuazione.
In You Know I’m No Good, canzone usata anche in un episodio di Mad Men e per la sigla di Diario di una squillo perbene, testo e immagini trasmettono tutto il senso della sua autodistruzione e sofferenza, tra alcool e tradimenti sessuali, che alla fine sono soprattutto un tradimento di sé, prima che del partner. Oppure il solenne bianco e nero di Back to Black, in cui la Winehouse interpreta una vedova in lutto che guida la processione funebre. Immagini che riviste oggi fanno venire la pelle d’oca e appaiono come una macabra premonizione. Malessere e disagio fisico paradossalmente si percepiscono ancora di più dalla sua assenza in video come Love is a Losing Game o Valerie, a cui non aveva preso parte per problemi di salute e che furono realizzati comunque per pure ragioni commerciali, sostituendola con immagini di repertorio o con le “Winettes”, ragazze vestite e truccate come lei. Forse il suo video più bello e rappresentativo in assoluto è quello di Tears Dry on Their Own, diretto da David LaChapelle. Alle immagini della Winehouse, sola in una camera d’albergo con il letto sfatto, mozziconi di sigarette ancora accese e bottiglie vuote dappertutto, si alternano altre in cui, con la sua celeberrima cofana selvaggia, i tatuaggi, il trucco pesante e il corpo sempre più segnato dalla magrezza, gira per le strade di Echo Park, quartiere povero della periferia di Los Angeles. Attorno a lei gravita una moltitudine di personaggi tipici dell’immaginario artistico di LaChapelle ovvero prostitute, papponi, maggiorate e trans monumentali, folli, freaks e disperati di ogni genere e sorta. Amy in quel contesto sembra quasi sobria, una qualsiasi, e forse proprio quello era il suo ambiente d’elezione, circondata da persone queer come lei, nel senso originario del termine inglese, ovvero “strano, bizzarro, curioso, singolare, eccentrico”. Eppure alla fine Amy non riesce ad interagire nemmeno con i cosiddetti “diversi”, passa inosservata, molti la spintonano perché non si accorgono nemmeno della sua presenza, un ragazzo ubriaco la infastidisce e il video si conclude con lei nuovamente sola nella camera d’albergo, con l’aria disperata. Sola in una camera, proprio come è stata trovata esanime sabato scorso…
Rock and roll, cara Amy. Dio (o chi per esso) ti abbia in gloria! Noi ti ringraziamo per quel lampo di genio, talento e umanità che hai saputo regalarci.