Un pomeriggio particolare con un uomo fuori dal comune
Durante la giornata “Omaggio ai maestri: Ettore Scola” abbiamo avuto l’onore di conoscere e intervistare uno dei maestri del cinema italiano che con sagacia, ironia e humanitas, ha saputo dipingere con tratti decisi e spesso non lusinghieri, l’Italia che cambia.
Ha scritto sceneggiature per Dino Risi – sue sono le storie di Il gaucho e Il sorpasso –e per Antonio Pietrangeli – per esempio La parmigiana o La visita – ma anche realizzando suoi film come Il mondo nuovo e Passione d’amore. Il regista, che nella sua lunga carriera ha toccato vari generi, restando sempre Scola, che non si è mai risparmiato, schierandosi politicamente, è frequentatore abituale del premio, e, nel caldo pomeriggio goriziano, in una sala affollata, ha raccontato i suoi inizi, il lavoro da sceneggiatore e regista, il rapporto con Amidei, l’Italia di oggi, che “non si fa amare dai giovani”, sapendo però stupire quando “è chiamata a decidere” del proprio destino. Un incontro con un uomo dalle mille sfaccettature, un personaggio che ha saputo affascinare e conquistare il suo uditorio.
In questa circostanza, la domanda è d’obbligo, Lei ha lavorato con Sergio Amidei, come era scrivere con lui?
Era un privilegio conoscerlo. Quello che lui insegnava era l’amore, la passione per ciò che faceva. Era un uomo forte, rissoso, appassionato. La passione serve in tutti i mestieri, fai il falegname, se non ci metti passione il mobiletto non viene bene, la stessa cosa vale per il cinema, se non ci metti passione il film non viene come dovrebbe. Con Sergio non si “lavorava” mai, si parlava di tutto, di politica, di donne, di libri. Quando sento dire ai giovani sceneggiatori e registi che scrivono una storia in due, tre mesi non mi spiego come facciano, noi c’impiegavamo anni.
Come nasce l’idea di un film?
Non ci sono regole. Non ci sono fonti. L’importante è capire cosa pensi la gente, cosa sogni, così quel film avrà qualche possibilità di piacere. Dai allo spettatore un corridoio, poi sarà lui a vedere porte, mobiletti, zie. Non è che tutti i corridoi siano uguali; è il pubblico che s’incammina. Mi piaceva creare dei personaggi ben delineati sotto tutti i punti di vista anche sotto quello storico-sociale. La commedia all’italiana ha avuto un forte impatto soprattutto per questo. Non si partiva da una storia, ma da un dato politico forte. Data la matrice si pensava ad un personaggio di un’Italia da raccontare. Basta pedinare l’uomo e poi tutta la storia arriva. Leggere un libro e volerne fare un film, a me non è capitato spesso. Con Passione d’amore è accaduto, succede così, leggi quel testo, ti ci ritrovi e decidi di farci un film, perché in quel momento in quelle pagine riconosci te stesso, quella cosa smuove un problema che è già in te.
Lei ha scritto per Pietrangeli, noto come il regista delle donne, ma anche per Risi, sono registi molto diversi tra loro ma anche da lei, come è riuscito a lavorare bene con entrambi?
Nel lavoro dello sceneggiatore non c’è un unico filo conduttore, non ci sono metodi, campi privilegiati. A Pietrangeli interessava la letteratura femminile. La donna in quegli anni non era mai protagonista, invece ad Antonio, piacevano le storie di donne. Quando ci si vedeva io già sapevo che lui cercava e voleva un film su una donna. Mentre Dino era diverso. A lui interessavano altre cose, nei suoi film c’erano i grandi attori, lui vedeva le donne nel rapporto con l’uomo. Questo non vuol dire che lo sceneggiatore non abbia personalità, anzi, devi conoscere bene l’altro per raccontare la storia che il regista vuole. La loro diversità, questo era il bello.
Cosa pensa del cinema di questi anni?
Mentre il cinema degli anni 80-90 era un cinema dell’autobiografia, dei reduci tardivi del ‘68, gli addetti ai lavori non si guardavano allo specchio, ciò che ne veniva fuori era un film, un cinema senza memoria. Le cose però stanno cambiando adesso, anche nel cinema. Stanno facendo un buon lavoro Sorrentino, Garrone, Risi. In tutto il mondo piace Il Divo anche se non conoscono Andreotti.
Come è nato il suo amore per il cinema?
Tutto è nato perché ho vissuto prima di tutto il cinema da spettatore. Mio zio aveva una tessera per tutti i cinema di Roma, con mia madre c’andavo tutti i giorni. Per me è sempre stata una cerimonia, una funzione religiosa, al buio, con caramelle e maritozzi, c’era ‘intervallo, per poi ripiombare nell’estasi cinematografica. Ci sono andato, al cinema, fin da quando avevo cinque anni, noi bambini eravamo i primi ad arrivare con lo “scagnetto”. Il primo film di cui mi ricordo è Fra’ Diavolo. Adesso tutto è diverso, si possono vedere i film anche a casa, sullo schermo della tv, ma non è la stessa cosa di un film guardato in sala. Io insomma sono rimasto quello spettatore lì, con lo “scagnetto”.
Parliamo dei suoi inizi: tutto è iniziato con il Marc’Aurelio. Come c’è arrivato?
Da quando avevo quattro, cinque anni ho sempre disegnato, avrei voluto fare il vignettista. Ho iniziato a lavorare al Marc’Aurelio quando avevo quindici anni, finivo la scuola e correvo in redazione, portavo i disegni fatti a matita. Conobbi tanta gente, disegnatori, ma anche Fellini, Steno, Scarpelli, Marchesi, all’epoca mi chiesero di fare il “negretto” – scrivere gag, situazioni da usare per questo o per quel film. Ero orgoglioso di essere un “negro”. In classe ero l’unico che guadagnava e i soldi che prendevo li usavamo per andare al cinema.
Lei è conosciuto come il regista che ha saputo guidare meglio gli attori. Ci parli di come li dirigeva e se ha avuto con qualcuno.
L’ho fatto per pigrizia. Il lavoro del regista è un lavoro faticoso, devi fingere di sapere tutto, è massacrante. Se non te lo inventi, è anche noioso, mi divertivo a dare dei ruoli problemi inconsueti: Mastroianni era un uomo affascinante, che piaceva alle donne e per andar contro a questa sua immagine, gli ho dato il ruolo di Una giornata particolare in cui interpretava un omosessuale, la stessa cosa la Loren, bella e tanta, io l’ho immaginata mal messa, ignorante. Tutto questo m’intrigava mi faceva essere un po’ meno pigro. Non ho mai avuto problemi con gli attori, neanche con Sordi o Manfredi; questo perché li conoscevo meglio di loro stessi e di me si fidavano e quindi si affidavano, io ero più critico di loro.