Musica, maestro Truffaut
Studiare l’opera di François Truffaut significa affrontare cinefilia allo stato puro. Regia, sceneggiatura, produzione, scrittura critica (perchè vale sempre la pena ricordare che prima di passare dietro la macchina da presa Truffaut è stato tra gli illuminati collaboratori che diedero vita ai Cahiers du Cinéma): il mondo di Truffaut è imbevuto di amore viscerale per il cinema, in ogni sua forma.
Anche naturalmente quella musicale. La terza masterclass su Truffaut – terza solo in ordine temporale, dopo gli interventi di Marzia Gandolfi e Roberto Nepoti e prima di quella tenuta dai redattori di Mediacritica – ha offerto una panoramica sull’universo sonoro trauffautiano, composto non solo di musica ma anche di rumori e suoni in senso lato. La lectio brevis tenuta dal musicologo Roberto Calabretto pone il giovane autore Truffaut al centro di un guado: da un lato l’influenza delle tecniche d’oltreoceano – grande sinfonismo, magniloquenza, saturazione e uso reiterato dei leit motiv – e dall’altro la “rivolta” francese portata avanti da Robert Bresson, incentrata su composizioni per il cinema scevre da condizionamenti di impianto teatrale e che devono affiorare solo per brevi frammenti. Truffaut, pur calato in questo contesto, non rinuncia alla musica, che anzi giunge ad occupare lunghissimi segmenti di narrazione (in Jules e Jim l’impasto musicale gioca un ruolo fondamentale, e di conseguenza i temi funzionano come i protagonisti). Non esiste un binomio indissolubile nell’approccio truffautiano, come dimostra la varietà di nomi succedutisi per la creazione delle sue colonne sonore: da Georges Delerue (Tirate sul pianista, Effetto notte, oltre al sopraccitato Jules e Jim) a Maurice Jaubert (che musicò le opere di Jean Vigo), fino all’hitchcockiano Bernard Herrmann, che perseguendo il suo proposito di “fenomenologico ritorno della musica alle sue origini” dà vita in Fahrenheit 451 (1966) a primordiali sovrapposizioni di moduli che portano la musica ad essere pulsazione ritmica. Nella contrapposizione tra superficiale accompagnamento e commento, Truffaut sceglie quasi sempre questa seconda opzione, utilizzando parametri musicali che dialogano magistralmente con la sintassi. Come in Il ragazzo selvaggio (1969), contrappuntato dalle composizioni di Vivaldi, a dimostrazione dell’attenzione rivolta dall’autore anche alla musica di repertorio. Ma forse è un altro l’esempio più fulgido dell’utilizzo del suono in Truffaut ed è racchiuso nel cortometraggio Antoine e Colette (1962), oggi conosciuto a tutti gli effetti come secondo capitolo del ciclo Doinel ma inizialmente pensato come episodio del più ampio progetto L’amore a vent’anni. Più di un commento, più di un parametro che riesce a dialogare con elementi cinematografici: nella scena del concerto le immagini sembrano muoversi a ritmo di musica, senza soluzione di continuità; la Sinfonia Fantastica di Berlioz scrive il racconto amoroso di un ragazzo folgorato dalla visione di una ragazza, creando un montaggio sonoro che si specchia nel montaggio dell’immagine. La musica si sedimenta e svolge una precisa funzione narrativa, consegnando a noi che guardiamo l’ennesimo (e inaspettato, impensato) capolavoro della carriera di un cineasta che ha cambiato i connotati della Storia del Cinema.