Lost in adaptation
Avere più di tredici anni e confessare una passione per la saga di Harry Potter è sempre rischioso. Può capitare di incappare in un complice, ma, nonostante la popolarità del ciclo potteriano, è molto più alta la probabilità di essere presi, più o meno bonariamente, in giro. “Ma come?” “Anche tu?” “Basta, non se ne può più di quest’occhialuto maghetto!”
Bene, signori, ora è finita. La serie letteraria si era conclusa tre anni fa con la pubblicazione dell’ultimo volume e ora, nonostante il settimo capitolo sia stato diviso in due parti (i maliziosi dicono per incassare più soldi, i puri di cuore parlano di fedeltà al romanzo), ci siamo arrivati, a Harry Potter e i Doni della Morte Parte 2. Cala il sipario, tutti a casa. Il senso di chiusura (o di sollievo) è innegabile e tutto fila via liscio proprio come ci si aspetta, senza sorprese né per i fan dei romanzi, già perfettamente a conoscenza della trama, né per gli spettatori cinematografici, rassicurati dai buoni effetti speciali e dalle infrangibili regole del genere.
“Certo che è tutto dentro la tua testa. Vuol dire forse che non è vero?” Svelare il contesto e l’autore di questa battuta equivarrebbe a rovinare l’esperienza a chi ancora non ha visto il film, ma la frase riassume efficacemente quel che va perso nell’adattamento per lo schermo dei sette volumi scritti da J.K. Rowling. Una contraddizione di difficile scioglimento vuole che un materiale narrativo in potenza perfetto per degli ottimi film d’intrattenimento – la prolifica immaginazione della scrittrice inglese ha prodotto infatti visioni originalissime di un mondo dettagliato e affascinante, riportate puntualmente su pellicola da tutti e quattro i registi susseguitisi dietro la macchina da presa – semplicemente smarrisca nella traduzione tutta la propria straordinaria magia. L’immensa mole di affetti, meraviglia e impegno politico (ebbene sì) contenuta in uno dei migliori risultati della narrativa per ragazzi degli ultimi anni, mutata in immagini non conserva nemmeno un grammo della propria potenza emozionante. Chi ha letto i libri, crescendo con Harry e i suoi compagni (non è da sottovalutare infatti la portata generazionale del fenomeno) è capace di leggere tra i fotogrammi anche ciò che non c’è, mettendo una pezza all’insoddisfazione. Chi non ha provato l’esperienza di un’Hogwarts su carta si dividerà, inevitabilmente, tra superficiali entusiasti e violenti detrattori. Chissà se, fra molti anni, esisterà un cineasta in grado di trasporre cinematograficamente lo spirito profondo di questa saga? È vero, checché ne dicano i cinici, che spezzare in due Harry Potter e i Doni della Morte ha portato a una maggiore “fedeltà tecnica” al romanzo. Ma non ce ne facciamo niente, perché la verità, per ora, resta tutta dentro la testa di chi, per dieci anni, ha reso vivo Harry solo con la forza della propria fantasia.