Rivoluzione dell’immagine, o spettacolo senza dignità?
“È del poeta il fin la meraviglia”. Giambattista Marino scrisse questo verso per cogliere l’impulso più naturale del Barocco e la virtù più intensa della sua poesia: l’urgenza di meravigliare sopra ogni altra cosa.
Michael Bay invece non è un poeta. Il suo cinema, che a malapena si preoccupa ancora di narrare, non ha mai conosciuto la poesia, né vuole conoscerla. È cinema che si ribella alle forme dell’arte o ama dimenticarle, eppure non si ribella alla meraviglia. Al contrario, si potrebbe dire che l’intera saga di Transformers è soltanto con la meraviglia che si rivela, e può farlo nei momenti in cui Bay sospende la storia, sveste i panni scomodi del narratore e, senza perdere il controllo del film, si abbandona all’azione; Bay vive per questi momenti: per sparatorie, catastrofi e lotte per la vita che vorrebbe far durare sempre più smisuratamente; per combattimenti che si stagliano dal resto del film alla ricerca di una catarsi totale, talmente vasta e veloce che lo spettatore può solo seguire il flusso di immagini senza memorizzarlo. Bay è un manierista privo di talento narrativo, forse persino immune alla sensibilità dell’uomo, ma è capace come nessun altro di manipolare l’occhio di chi è davanti allo schermo attraverso il ritmo delle nuove tecnologie, o forse più semplicemente con il ritmo dell’immagine del nuovo millennio figlia dei videoclip, dei videogiochi, della pubblicità e dallo stesso 3D con cui Transformers 3 è stato girato. Questo cinema ama essere una meraviglia per gli occhi ma anche una sfida per chi guarda; ama superare i propri limiti ottici per sorprendere e sorprendersi; ama distruggere un’immagine perché ha subito bisogno di un’altra immagine per appagarsi, ma passano pochi secondi e il montaggio diventa ancora più rapido per ricominciare lo stesso processo, per cercare un’estetica e un’emozione ancora più sfuggente.
Molti potrebbero obiettare che tutto ciò non è cinema, perché trama e sceneggiatura diventano solo strumenti per innescare uno spettacolo audiovisivo ma non un film. Altri potrebbero ridire che queste proprietà fanno della trilogia di Transformers la rivoluzione più importante nella definizione del blockbuster contemporaneo, o nelle aspirazioni di un nuovo cinema.
Perciò raccontare il soggetto del film ha poca importanza, nonostante si sia scritto molto sulle novità di una storia che revisiona lo sbarco sulla Luna, minaccia l’asservimento della Terra e poi culmina nell’ennesimo scontro tra Transformers e Decepticon. Transformers 3 infatti non si presenta come una novità narrativa ma come un happening visivo che al terzo capitolo ormai può solo riavvolgere, ribadire e riallestire macchinalmente (e banalmente) i due film precedenti, proseguendo la ricerca della meraviglia. Eppure, se giudicassero solo gli occhi, c’è qualcosa di più sconvolgente che il cinema dei pop corn può offrire? Basterebbe dimenticare e rimuovere la mente, la morale e vedere soltanto: ma si può?
Bay è riuscito a ridurre il suo cinema al gioco di un bambino: un bambino che manovra i giocattoli come uno spettacolo di marionette, secondo i suoi ingenui desideri infantili, secondo storie inventate per arrivare al quinto atto, l’ultimo, dove scatenare i propri entusiasmi e le fantasie eroiche; un bambino che si diverte con i suoi prodigi, che ha imparato a crescere senza immaginazione e senza farsi domande.