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The Conspirator

lunedì 27 Giugno, 2011 | di Matteo Quadrini
The Conspirator
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È il 1865. La guerra di secessione volge al termine e la giovane nazione americana pensa già al dopo, a rifondare un’identità sopraffatta dai campi di battaglia, ma distrutta in realtà molto tempo prima da tradizioni e interessi inconciliabili tra Nord e Sud.

L’unità nel popolo americano però ha una fattezza troppo fragile per essere universalmente condivisa, soprattutto dagli sconfitti, e la sera del 14 aprile si disintegra tra i colpi di pistola che uccidono il presidente Lincoln. “Sic semper tyrannis!” (“Così sempre per i tiranni!”) grida l’assassino sudista e gli Stati Uniti scoprono una vulnerabilità pericolosa, un’instabilità che potrebbe mettere in crisi la sopravvivenza della nazione. Servono dei colpevoli per placare la giustizia del popolo e ripristinare la sicurezza, così poco importa se vendetta può sostituirsi a giustizia, se i colpevoli non si trovano ma si fabbricano…
Per far rivivere la cronaca di quei giorni contraddistinti dallo scontro etico fra le responsabilità del diritto e la Ragion di Stato, The conspirator descrive il processo incostituzionale che imputò la colpa del complotto a Mary Surratt (Robin Wright), privilegiando non tanto il punto di vista dell’accusata ma il percorso del suo avvocato difensore, Frederick Aiken (James McAvoy), da convinto reduce di guerra nordista a idealista disilluso.
Redford aspira al romanzo di formazione attraverso la passione civica, la stessa che da oltre trent’anni lo spinge a indignarsi per gli abusi di potere, a trasformare il suo cinema in un promemoria che invita a salvaguardare i valori delle istituzioni e a temperare l’istinto pragmatista dell’individualismo statunitense (e non solo). Cinema di un liberale solidale e solido cinema liberale che forse sarebbe piaciuto a Frank Capra, ma che per essenza e contenuti deriva direttamente da quella stagione impegnata, il cinema americano degli anni ’70, a cui Redford sembra non poter fare a meno di appartenere, nemmeno per leggere la contemporaneità. La sua intera poetica di autore sgorga continuamente da quella fonte, anche se ne è solo un’agognata appendice, senza la stessa forza propositiva e acutezza. Redford infatti teme per l’individuo indifeso e schiacciato, ma in questo umanismo avverso alla Ragion di stato, gli sfugge la complessità di ciò che filma, perché il diritto non è manipolato solo dal potere, ma anche dalle comprensibili omissioni di una madre che copre il proprio figlio: mentire o trattenere una testimonianza è un affare circolare che non preserva nemmeno gli uomini giusti tanto cari a Redford, e la giustizia è solo il compromesso finale di una mediazione delle varie verità. Resta la lezione di coerenza, una messa in scena senza retorica e stilizzazioni (e allora come spiegare questa fotografia così desaturata? Per alterare le solite rappresentazioni dell’800?) che vuole essere didattica per ribadire ancor prima di dire, per smuovere le coscienze anche senza avere la forza di cambiarle. In fondo non è questo che vogliono gli spettatori che seguono il cinema di Robert Redford? Trovare una voce amica che confermi i loro valori o i loro scetticismi, non che li espanda o li contraddica; una via sincera, talmente sincera che per essere fedele a se stessa preferisce vivere di limiti, e limitarsi a sua volta…

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