Spingendo i confini più in là
Misterioso e ambiguo, il personaggio della giovane donna al centro dell’ultimo film di Abdellatif Kechiche. Appartenente alla tribù degli Ottentotti, popolazione indigena dell’Africa australe, Saartjie Baartman lascia il suo paese agli inizi dell’Ottocento al seguito di un padrone.
A causa delle sue peculiarità fisiche (generosissime natiche ed esuberanti organi genitali), la “venere ottentotta” viene fatta sfilare in teatri, locande e bordelli, prima a Londra, quindi a Parigi, in un incalzante avvicendamento di spettacoli e di esibizioni di ambigua natura. Rinchiusa in una gabbia, legata a un collare, Saartjie è oggetto esibito, fisicità estrema, vera e propria carne soggetta a manipolazione. In un serrato girotondo di primi piani insistenti ed invasivi, e sequenze a dir poco moleste, il film di Kechiche impone alla coscienza la responsabilità del guardare. La schiavitù che pesa su Saartjie è infatti imposta dal nostro sguardo, non dalla sua volontà. È il nostro occhio che la confina, reclude, sottomette. È la nostra funzione di pubblico/platea che la ingabbia. Dal canto suo, il lavoro di Kechiche continuamente intreccia, alterna, ribalta i piani della questione. È difficile distinguere, capire, anche solo in parte giustificare: è impossibile non essere complici di quello che poco a poco diviene un vero e proprio abuso sul corpo della giovane donna. Ma come se ciò non fosse sufficiente, un’ ulteriore drammatica evoluzione attende la vita di Saartjie. Venduto alla scienza, il suo cadavere diviene motivo di studio (e di orgoglio) per gli ottocenteschi scienziati darwiniani impegnati nella dimostrazione della superiorità della razza bianca: troppo vicine le dimensioni del suo cranio a quelle di una scimmia, troppo lontane da quelle di un essere umano. Sopraffatti dalla pesantezza di un mondo cieco e inumano, di fronte all’ ultimo importante lavoro di Abdellatif Kechiche si riflette, si guarda, si soffre. Accecati dalla pericolosa fede nelle certezze della scienza, al termine del film lasciamo la sala alla ricerca di qualcosa. Ancora vivido nella mente il calco della giovane Saartjie, cerchiamo di immaginare aperti i suoi occhi. Asserragliati dall’insostenibile pesantezza dell’essere, cerchiamo nuovi spazi, nuovi approcci, logiche diverse. Chiediamo nuovi metodi di conoscenza e di verifica, nuove possibilità di fruizione, più umane. Imparare a stare di lato all’esistente, rifiutare la passiva complicità morale, educare lo sguardo a non appropriarsi necessariamente dell’oggetto guardato. Come fa Abdellatif Kechiche che con Venere nera ci invita a ripensare noi stessi e il nostro sguardo. E ad allargare l’ idea di che cosa è umano, spingendone i confini più in là.