Vere sovversioni e false originalità
Exit Through the Gift Shop
Per chi conosce il guerrilla artist Banksy potrebbe essere difficile se non impossibile fidarsi della veridicità di Exit Through the Gift Shop, presentato nella giornata di apertura di Biografilm Festival 2011.
Ufficialmente documentario, circolano varie supposizioni per cui questa divertente storia di “stalking” e arte urbana non sarebbe altro che un’ennesima beffa del geniale artista di Bristol; la voce narrante quasi favolistica di Rhys Ifans rafforza quest’impressione, ma di certo non la conferma.
Il film narra con molta ironia la trasformazione del francese Thierry Guetta da videoamatore qualunque (comunque radicato nella Los Angeles trandy), ad ammiratore e poi complice/documentarista dei writers più famosi – ma dire writers è un po’ riduttivo, da Space Invader a Shepard Fairey – e infine a street artist di dubbio gusto lui stesso, passando per l'”incontro della vita” con l’inavvicinabile Banksy: attraverso le parole di Guetta, di artisti e di collezionisti, si ripercorre cronologicamente la sua inquietante ascesa verso la brandizzazione di se stesso come Mr. Brainwash (MBW), ovvero la summa del fraintendimento dell’arte del XXI secolo; e la creazione del mostro sarebbe proprio colpa di Banksy. Attingendo a piene mani dalla pop art, ai limiti del plagio, MBW banalizza la carica sovversiva delle opere dei “colleghi” puntando tutta la sua produzione su di sé e racchiudendola dietro un’idea di lavaggio del cervello di cui, in questi termini, è lui stesso vittima. Apparentemente ciò non gli impedisce di diventare ricco e famoso, perché in fondo non fa altro che muoversi in un contesto dove la street art è non solo già ampiamente mercificata, ma anche assimilata come “tendenza” per cui sborsare migliaia di dollari.
Mr Brainwash è l’opposto dell’artista di Bristol: laddove Banksy agisce da solo, MBW assume schiere di designer e artisti che lavorino per lui; laddove Banksy si muove nell’ombra e nell’anonimato più totale (facendo di questa caratteristica un punto di forza, trasformandola in mimetizzazione tra la folla), MBW fa del suo stesso volto l’oggetto degli stancil che crea, e si fa fotografare con chiunque.
Il documentario assume quindi diverse letture: è effettivo documento del lavoro di artisti raramente ripresi perché operano spesso nell’illegalità; rivela alcuni processi creativi e riflette sul ruolo della documentazione video per forme di espressione intrinsecamente temporanee; è altresì cassa di risonanza che rafforza l’alone di mistero e la miticità che circondano Banksy e le sue azioni, senza svelare nulla: potenzialmente, l’uomo con cappuccio e volto in ombra che parla con voce artefatta potrebbe essere chiunque. In questo senso neanche la definizione di mockumentary si addice al film: le azioni di guerrilla art sono reali, poco importa se la narrazione è artificiosa, e fedele è la ricostruzione della “sbandata” di collezionisti e celebrities che pagano a peso d’oro i lavori di Banksy. Dunque il film non intacca la forza politica di Banksy, a patto che si accordi totale fiducia non al racconto, ma alla sua “terrorist art” che non risparmia l’élite modaiola principale acquirente dei suoi lavori.
Ma il significato di fondo è forse nel titolo stesso, e ribadito da una sequenza del film: i passanti si fermano davanti alla cabina telefonica rossa abbattuta e mezza accartocciata, ammirano, fotografano e ne riconoscono la firma. Finché l’opera di Banksy & co. rimarrà nelle strade e sui muri delle città del mondo, a commentare ed evidenziare le contraddizioni dell’oggi, sarà arte alla portata di tutti, nel senso più completo del termine. Ben lontano dall’estetica del gift shop all’uscita dei musei, di cui il vacuo collezionismo sembra solo la versione più sofisticata.