La magia del simbolo
C’è qualcosa, nel cinema di Malick, che si insinua nell’anima e le sussurra. E’ qualcosa di più del ricorrere di una voce, o della bellezza intatta di un’immagine.
E’, forse, l’incontro di entrambe o, meglio, la distanza che le separa e che fa sì che si rincorrano e si accavallino, anelandone il superamento. Dei suoi cinque film -lungamente cullati- The Tree of Life è probabilmente il più personale e, al tempo stesso, quello che dichiaratamente affronta le incognite dell’esistenza a partire dalle sue radici, siano esse la nascita del cosmo o la pianta minuscola del piede di un bambino.
La storia di Jack O’Brian (Sean Penn), la sua infanzia nel Texas degli anni ’50, sono il pretesto per una riflessione sugli aspetti più intimi della vita, intessuti di un valore profondamente simbolico. La madre (Jessica Chastain) che, assorta, carezza la psiche-farfalla, risplende d’amore puro e incondizionato, lo stesso che si fa impronta rossa sul piede del figlio e dilaga incontenibile nella gelosia colpevole della pubertà. Di segno opposto l’archetipo paterno (Brad Pitt), mentore despota e autoritario, costretto a garante della disciplina e al ruolo ingrato di primo rivale. La tensione duale si traduce per Jack nella ricerca di una sintesi che include perdita e accettazione, comprensione sofferta e dolorosa memoria, attraverso un’angoscia esacerbata dalla morte prematura del fratello. Malick si immerge nel flusso di un’opera liquida e suggestiva, che alle immagini cosmogoniche e alla densità materica dei quattro elementi oppone luoghi psichici di struggente intensità. La macchina da presa restituisce il senso profondo di questo vagare, seguendo i personaggi per poi lasciarli, incontrarli di nuovo o incontrarne di nuovi. E’ uno sguardo che esplora, che sbircia oltre le tende e cammina incontro al sole, scruta i volti e ne spia le reazioni. Il montaggio, sempre più ellittico e indipendente, segue intenti sinfonici più che drammatici, mentre la Grazia e la Natura, forze motrici dell’esistenza, si alternano e si fondono nell’usuale accuratezza della colonna sonora. Dei film precedenti ritornano i simboli (la fiamma della candela, la casa irraggiungibile) e i concetti (la violenza endemica della natura che colpisce anche chi è giusto) che trovano, qui, ulteriore sviluppo senza per questo congelarsi in una risposta definitiva. E’, piuttosto, nella sfuggente complessità della vita, nello splendore eternamente mobile del suo manifestarsi che sembrano poter convivere amore e violenza, dono e possesso, generosità e sopraffazione. Non sorprende, quindi, che l’ultima immagine sia quella di un ponte, estremo emblema di riconciliazione e costruzione di un equilibrio stabile al di sopra di ciò che incessantemente muta. Se molto cinema contemporaneo rivendica l’urgenza di un legame autentico e intuitivo con la sfera simbolica, Malick lo costruisce dall’evolversi di un percorso lungo decenni. La via della Grazia è anche la via della Natura.
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