13° Far East Film Festival, 29 aprile – 7 maggio 2011, Udine
La Cina è (ancora più) vicina
Con la vittoria del melodramma Aftershock di Feng Xiaogang si rafforza uno dei punti cardine dell’analisi sul cinema asiatico degli ultimi anni: l’industria cinematografica cinese sta vivendo uno sviluppo senza precedenti, non solo a livello di produzione e successo casalingo ma anche di appetibilità per la platea occidentale.
Fino a pochi anni fa sarebbe stato non solo assurdo ma persino ridicolo ipotizzare che le prime due posizioni di un festival come il Far East potessero essere occupate da due opere provenienti dalla Cina, da un lato per il confronto con le super potenze giapponesi e coreane (l’una da sempre la più vicina ai gusti europei, l’altra impreziosita da standard qualitativi e visivi spesso elevati) e dall’altro per la scarsità e mediocrità della proposta cinese. Ora le cifre parlano da sole: in Cina nel 2010 sono stati prodotti 526 film (nel 2000 erano appena 80!), gli incassi sono cresciuti del 64% e le vendite di pellicole autoctone all’estero sono aumentate del 27%. La Cina è ormai il terzo produttore mondiale dopo Bollywood e Hollywood, e di questa crescita gli organizzatori del FEFF naturalmente tengono conto: degli otto film cinesi proposti nel programma di quest’anno ben sei erano in fascia serale, ovvero quella con la maggior affluenza di spettatori; dei due restanti – escludendo il disastro simil-western Wind Blast – uno è il vincitore. E quindi, accanto al trionfatore Aftershock, sul podio salgono al secondo posto Under the Hawthorn Tree di Zhang Yimou e al terzo la folle commedia filippina Here Comes the Bride. Al super favorito Confessions del giapponese Nakashima Tetsuya (quello di Kamikaze Girls e Memories of Matsuko!) rimangono le briciole – si fa per dire – del Black Dragon Award e del MyMovies Award. Ma non è tutto oro quel che luccica ovviamente, perchè la cinematografia made in China tutt’ora vive di enormi contrasti e castranti restrizioni. Per la Repubblica Popolare governata da Wen Jiabao il cinema continua ad essere quasi esclusivamente uno strumento di propaganda; non esistono target, e di conseguenza i film devono essere visibili o a tutti o a nessuno; non si possono produrre storie fantasy, horror o esplicitamente sessuali, perché potrebbero “disturbare” la mente del popolo. Di cosa possono parlare allora gli autori e sceneggiatori cinesi? Sono due i filoni coatti più rappresentati: la commedia brillante e/o demenziale di impianto totalmente inverosimile a là What Women Want, levigata e plasticosa, atta allo stordimento delle masse; e i drammi iper-realistici, grandi episodi storici riletti in chiave epica e – ça va sans dire – celebrativa. Con Aftershock, candidatura cinese per gli Oscar e primo film di produzione interna ad essere distribuito in 3D, il regista Feng (suoi anche A World without Thieves del 2004 e The Assembly del 2007) è riuscito in una delicata operazione di riconciliazione nazionale raccontando la tragica storia di due terremoti (quello che scatena la tragedia avvenne nel 1976 e causò la morte di oltre 240 mila persone) e di una famiglia distrutta dal primo e riunita attraverso il secondo. Più del sisma di Tangshan in sé contano però le sue conseguenze, nell’animo di chi sopravvisse; conta il discorso sulla famiglia, sulla discriminazione, sulla pietà e sul senso di colpa. Argomenti di ampio respiro e affrontati con rara maestria, eppure sempre influenzati da un “controllo” politico onnipresente e onnisciente, a cui non deve sfuggire nulla. Come ha scritto l’autore Han Han nel suo blog, “i film dovrebbero usare l’immaginazione per creare opere che riflettano gli ideali della gente, ma in Cina i film riflettono principalmente gli ideali del governo”. Il rinnovamento in Cina avanza a passi da gigante, certo, ma la sensazione è che la strada – artistica, umana e politica – sia ancora lunga e irta di ostacoli.