Il vero peccato che sta commettendo l’amministrazione Obama è quello di iconoclastia. Probabilmente, gli intenti erano persino comprensibili: dopo che il guerriero Bush ha mostrato i cadaveri sfigurati dei figli di Saddam, poi ha lasciato che gli irakeni impiccassero Saddam praticamente in diretta web mondiale – quindi combattendo i terroristi con le loro stesse armi dello shock barbarico/mediatico – Obama ha cercato di far emergere anche linguisticamente il proprio “soft power”.
Ma negare ogni immagine del cadavere di Osama e soprattutto gettarlo in mare occultandone per sempre l’ostensione, non ha solo negato la pietas che l’Occidente dovrebbe mostrare per distinguersi dalla violenza degli stragisti, ma ha appunto prodotto una iconoclastia. Ad essa si sono ispirati i talebani quando hanno bombardato tutte le statue sacre dell’Afghanistan e annientato un tesoro millenario dell’umanità. Significa eliminare le effigi, perché le si considerano insopportabili o contrarie alla morale e alla religione.
Osama, ovviamente, non è un tesoro dell’umanità, ma solo un assassino di massa, ben protetto fino a pochi giorni fa da vasti settori del governo pakistano (tra parentesi: non sarà il caso di chiedersi a questo punto che rapporto c’era tra Osama e gli oppositori di Benazir Bhutto quando fu fatta saltare per aria insieme ad altre decine di innocenti?). Però vale la stessa riflessione: l’iconoclastia, nell’epoca dei media, per un Presidente che ha cominciato la campagna per la rielezione nel quartier generale di Facebook, rappresenta un vulnus. Sottintende che la gente deve essere protetta da se stessa, per evitare che l’ostensione di un cadavere (come accaduto in passato) generi un culto.
Che cosa c’entra tutto questo con il cinema? C’entra solo con il cinema. È il cinema.