Tra uliveti e “aspre” solitudini: il ritorno al grado zero dell’esistenza
Puglia, anni 50. Il primo incarico. L’opera prima di Giorgia Cecere, presentata a Venezia nella sezione Controcampo Italiano, racconta di Nena, una meravigliosa Isabella Ragonese, giovane maestra a cui viene affidato il primo incarico; se ne va da casa con una valigia piena di paure e riserve, ma anche di speranze e sogni, lasciando la famiglia e il “grande amore”, figlio di una ricca famiglia borghese.
La “maestrina”, nel suo trasferimento, incontra una realtà lontanissima da lei, una terra arcaica, popolata da persone che si sforza di capire ma la loro mentalità rende impossibile ogni tipo di rapporto. L’autunno che l’accoglie è metafora dell’iniziale diffidenza nei confronti della forestiera, che sottrae al lavoro dei campi le instancabili braccia dei figli e, al lavoro domestico, le mani operose delle figlie in nome di una “superflua” scolarità. Rappresenta però anche la “paura” verso una donna nuova che riceve il fidanzato timorosa ma con la trepidazione di chi si è sentito solo per lettera e non si vede da tempo.?Intanto le stagioni passano, la natura esplode e nella stessa maniera la “relazione” tra Nena e i compaesani si scalda. La donna trova un equilibrio, le terre sterminate, gli ulivi, diventano parte di lei, del suo sguardo e, l’aspro altopiano le viene incontro quando scopre che il suo amore è solo un’illusione. Come la natura, così quei bambini, la gente “terrigna” e semplice la conquistano e assieme all’uomo “analfabeta di modi e sentimenti”, con cui passa le notti, fanno sì che quella scelta, in un primo momento “imposta”, diventi qualcosa di più, di diverso, qualcosa che può cambiare la vita.?Il problema è sempre quello, in un cinema italiano asfittico e poco originale, ogni lavoro che si discosti da uno standard mediocre e in alcuni casi volgare fa gridare al miracolo, facendosi perdonare mancanze che in altri casi sarebbero discrimine della riuscita o meno del film. Un incarico svolto a metà dunque; non sono sufficienti l’interpretazione della Ragonese, la sceneggiatura ben scritta, per colmare il senso di vuoto generato dal finale aperto che accompagna lo spettatore all’uscita dalla sala.