365 without 377
Conversazione con Adele Tulli
Il titolo del bel documentario diretto dall’esordiente Adele Tulli e prodotto da Ivan Cotroneo cita lo slogan usato dalla comunità GLBT indiana per festeggiare a Bombay il primo anniversario (365 giorni, per l’appunto) dell’abolizione della Sezione 377 del Codice Penale Indiano.
Introdotta nel 1860 durante il dominio coloniale inglese, vietava qualsiasi atto sessuale tra adulti dello stesso sesso, giudicandoli “contro natura” e punendoli con una condanna di dieci anni di carcere.Il 2 luglio del 2009 la Sezione 377 è stata finalmente abrogata dalla Corte Suprema di Delhi con una sentenza dalla portata storica e 365 without 377 ricostruisce i festeggiamenti del primo anniversario di quell’evento attraverso il punto di vista e le storie private di tre persone che fanno parte della comunità GLBT indiana: Abheena, una ballerina transessuale, Pallav, un ragazzo gay, e Beena, una ragazza lesbica. Storie spesso dolorose ma anche di coraggio, lotta e gioia per questo primo importante passo in avanti verso l’acquisizione di nuovi diritti.
Abbiamo avuto modo di incontrare e intervistare la regista Adele Tulli in occasione della 26° edizione del Torino GLBT Film Festival dove il documentario, l’unico italiano, è in concorso.
Come è nata l’idea di realizzare questo documentario?
Durante i miei frequenti soggiorni in India per motivi di ricerca e di lavoro (Adele Tulli è laureata in Lingue e Civiltà Orientali e da anni si occupa di movimenti sociali nell’India contemporanea dove ha realizzato diverse ricerche sui movimenti femministi ed ecologisti e ha condotto workshop e seminari sul tema “gender and sexual identities”, ndr) sono entrata in contatto con QAM (Queer Azaadi Mumbay), il collettivo che riunisce tutti i gruppi del movimento GLBT indiano e ho saputo che si sarebbe celebrato il primo anniversario dell’abrogazione della Sezione 377. All’inizio l’idea era di realizzare un reportage della giornata, dopo di ché ho deciso di arricchire quello che altrimenti sarebbe stato solo il classico reportage giornalistico attraverso lo sguardo di tre persone che fanno parte del movimento. La scelta è stata molto mirata perché ovviamente potevo coinvolgere nel progetto solo persone che avessero già fatto coming out e in più volevo mostrare una varietà di età ed esperienze. Beena ha infatti 28 anni ed è stata “closed” per molto tempo, mentre Abheena e Pallav hanno tra i 33 e i 34 anni e fanno parte del movimento da più tempo.
Ho trovato interessante la scelta di raccontare la giornata attraverso tre diversi punti di vista che alla fine rappresentano quasi tutte le componenti della sigla GLBT.
Sì, volevo evitare gli stereotipi per cui ho scelto tre storie molto private e personali, ma che al tempo stesso potessero parlare a livello universale e raccontare anche storie di altre persone vicine a loro, come per esempio la questione dei matrimoni combinati che è da sempre una triste realtà al centro delle battaglie del movimento femminista e lesbico indiano.
Il documentario è ricco di immagini forti, potenti, che rimangono impresse come, per esempio, la bellissima sequenza della danza di Abheena oppure la madre anziana che, partecipando ai festeggiamenti del 2 luglio, fa un discorso commovente e sentito sull’accettazione della propria figlia transessuale.
Quel discorso a me piaceva molto perché è un po’ ambiguo. Non si capisce se quella signora si senta in qualche modo in colpa e debba autogiustificarsi, ma è bello perché molto spontaneo, senza sovrastrutture culturali e senza appartenere al movimento GLBT. Insomma, rappresenta un esempio di accettazione totalmente autogestito. E poi c’è anche una questione di classe sociale. Quella donna sicuramente non faceva parte dell’India urbanizzata che conosce e parla l’inglese.
A questo proposito, mi chiedevo quale fosse l’estrazione sociale di Beena, Pallav e Abheena, perché danno l’idea di appartenere tutti e tre alla borghesia.
Sì, è così ed è stata una scelta ben precisa, da un lato problematica perché sicuramente non è rappresentativa di tutta la società indiana, ma dall’altro volevo evitare il classico stereotipo sull’India povera delle slum che è sempre dietro l’angolo. Anche loro non ne possono più di essere rappresentati in quel modo e poi in realtà esiste una leggera differenza di classe tra i tre, dal momento che Beena e Pallav appartengono a una borghesia più elevata ed istruita, mentre Abheena ha fatto un suo percorso personale molto intenso e difficile perché viene da una classe sociale sicuramente non bassissima – non viene dalle slum per intenderci -, ma da quella borghesia cittadina molto piccola. Abheena inoltre è una leader di comunità, dopo aver creato delle organizzazioni per persone transgender e aver lavorato molto nel sociale, l’anno scorso, poco dopo la fine delle riprese, è stata incaricata di gestire i fondi per la lotta all’AIDS destinati a tutte le associazioni GLBT indiane ed è la prima transgender a ricoprire questo ruolo.
Un altro aspetto che emerge dal tuo documentario è la grande forza, consapevolezza e voglia di lottare per i propri diritti del movimento GLBT indiano.
Devo dire che il movimento è esploso dopo la sentenza della Corte Suprema di Delhi. Chiaramente, come afferma Pallav alla fine del documentario, una legge non è una bacchetta magica che risolve i problemi delle persone dall’oggi al domani. Per esempio, da quando la sezione 377 è stata abrogata le violenze a sfondo omofobico sono aumentate perché nel momento in cui si diventa visibili e si richiedono nuovi diritti si inizia anche a dare fastidio a una certa parte intollerante della società. Però in questo caso specifico si è passati da una situazione di totale invisibilità in cui vivevano le persone GLBT a vivere una sorta di Stonewall indiana. In quest’ultimo anno i gruppi, le associazioni e le feste GLBT si sono moltiplicate, è stato aperto anche un Pride Store. Insomma, c’è stata una vera e propria esplosione e i media indiani hanno dato molta risonanza alla cosa.
Quale approccio hanno avuto i media indiani rispetto a questa notizia? Il documentario ricostruisce molto bene l’ampio dibattito che è nato, in particolare in televisione, dopo l’abrogazione della Sezione 377 e sembra che la conduzione dei telegiornali e la moderazione dei talk show fossero molto gay friendly, solidali. E quali sono state le reazioni della società civile e della classe politica?
Nella nuova India urbanizzata e moderna, di cui ovviamente anche il giornalismo fa parte, c’è stata una grandissima solidarietà generale su questo tema. Soltanto le comunità integraliste religiose si sono opposte e, come viene ricordato alla fine del documentario, hanno presentato una petizione per invalidare la sentenza della Corte Suprema di Delhi e reintrodurre così la Sezione 377 ma nessuno teme che ciò accada realmente, anzi, c’è molto ottimismo a riguardo perché la cosiddetta società civile ha compreso e accolto le istanze del movimento GLBT. I politici invece si sono tenuti in disparte, rimanendo in silenzio. Per molto tempo non si sono espressi né negativamente né positivamente a riguardo. Successivamente hanno iniziato ad uscire dichiarazioni di solidarietà e sostegno da parte di alcuni partiti. Più in generale, non avendo presentato alcuna petizione contro, hanno fatto capire che non erano contrari alla sentenza della Corte a cui hanno rimandato la decisione finale principalmente per non perdere voti esponendosi troppo, ma allo stesso tempo il silenzio del mondo politico può essere interpretato come un silenzio-assenso. Chiaramente i membri delle fazioni politiche religiose o integraliste si sono espressi negativamente ma la loro era una reazione inevitabile e scontata.
Capita spesso che questo tipo di prodotto dal contenuto forte si riveli poi debole da un punto di vista estetico mentre nel caso di 365 without 377 colpiscono molto la ricerca dell’immagine, la fotografia bellissima e molto curata e la colonna sonora.
A questo proposito devo ringraziare il direttore della fotografia Kush Badhwar, un ragazzo della mia stessa età che ho conosciuto proprio in India. Sono stata molto fortunata a lavorare con lui perché, oltre a condividere le stesse idee e punti di vista, è stato un vero e proprio maestro perché io non ero una filmmaker. In generale tutte le persone con cui ho lavorato per realizzare il documentario sono giovanissime. L’autore delle musiche è un mio caro amico, Gregorio De Luca Comandini, che trovo abbia fatto un gran lavoro.
Com’è avvenuto invece l’incontro con il produttore Ivan Cotroneo?
Lo avevo conosciuto a Roma e quando ho saputo che aveva fondato una casa di produzione per sostenere audiovisivi a tema GLBT gli ho parlato di quest’idea che avevo e lui mi ha da subito incoraggiata e sostenuta, dandomi consigli preziosi, soprattutto perché io, non provenendo dal mondo del cinema, ero totalmente un’esordiente. Per esempio, abbiamo deciso insieme che sarei tornata a Bombay per realizzare il primo montaggio e questa scelta si è rivelata molto utile perché così ho potuto rigirare o girare ex novo alcune sequenze e immagini.
C’è già un progetto di distribuzione?
In realtà la partecipazione al Torino GLBT Film Festival è la prima uscita ufficiale del documentario. Per ora lo abbiamo inviato ad altri festival e abbiamo già ricevuto alcune risposte positive. Sicuramente verrà proiettato al Kashish, il primo Film Festival Queer di Bombay che si terrà a fine maggio e ovviamente alla proiezione saranno presenti i tre protagonisti, e poi credo anche al MIX di Milano e alla prima edizione del Sicilia Queer Film Fest di Palermo.
Per concludere, spero che il documentario possa trovare presto una distribuzione nel nostro Paese perché merita davvero di essere visto.
Ti ringrazio, lo spero anche io, soprattutto per i protagonisti di questa storia e perché l’attenzione sull’argomento rimanga alta dal momento che la legge è ancora in discussione.