Un film sulla tossicodipendenza per parlare dell’amore
La tossicodipendenza è un tema difficile da trattare, anche per un mezzo che si esprime principalmente con le immagini come il cinema. Sono infatti le immagini, più che le parole, a dare concretamente l’idea di cosa comporta la dipendenza dall’eroina, come ci ha mostrato il progetto Face of Meth avviato nel 2005 in una contea dell’Oregon.
Data la complessità dell’argomento Francesco Antonio Castaldo ha deciso di “mettere da parte” per un momento l’aspetto visivo e concentrarsi sul testo. Le parole sono di fatto le protagoniste de Il sesso aggiunto, opera prima del regista napoletano che narra la storia di Alan, tossicodipendente, e del suo viaggio interiore alla ricerca di quella spinta che può farlo uscire dal baratro.
Nobili sono le intenzioni e pregevole è la scelta di non calcare troppo la mano su questioni così delicate. Guardando il film però non può non venirci in mente una delle opere che più crudelmente (e realisticamente) ha descritto il mondo della droga, Amore tossico di Claudio Caligari.
Il confronto è quasi inevitabile: se il film di Castaldo è basato sui dialoghi quello di Caligari parla per immagini. Questo rende due film in apparenza molto simili, diversissimi tra loro soprattutto per l’effetto che ottengono: Amore tossico tocca nel profondo con le sue visioni spietate e i dialoghi crudi, Il sesso aggiunto riesce a malapena a scalfire la superficie. I personaggi sembrano quelli di un romanzo manzoniano, coinvolti nelle vicende, ma comunque sempre leggermente fuori, protetti dallo sguardo di un autore che è quasi un padre (quello che manca al protagonista). La sceneggiatura ha un registro linguistico molto elevato ma è – ed è il caso di dirlo – sporcata da alcuni termini gergali che hanno un effetto contrario a quello voluto: invece di aiutarci nell’immedesimazione, stridono con l’aura di letterarietà e moralità che aleggia sui personaggi, in particolare quello di Alan. A causa di ciò i dialoghi appaiono freddi e inverosimili e l’esclusione del piano dell’immagine comporta una certa difficoltà nel descrivere pienamente la schiavitù fisica e psichica data dall’uso di droghe pesanti.
Certo, quando l’argomento è la droga c’è sempre il rischio di cadere nel “già detto” (e per un film fatto di parole il rischio è ancora più grande), ma – nonostante tutto – la sola scelta del tema “tossicodipendenza” è un punto a favore del regista, dal momento che, nell’ampia offerta cinematografica, la questione è ancora poco trattata.