Cattivi modelli
D’accordo, la torbida storia della signora Luisa, sessantenne talmente inappagata da circuire l’amico orfano del figlio adolescente, non è trama da Tre Metri Sopra il Cielo.
Ma se le si aggiungono la professoressa leziosa, l’amante disillusa dello zio cocainomane e l’illibata fidanzatina dell’amico del cuore, tutte sedotte dal bel Ludovico (Marco Rulli), più che al peggior cinema giovanilista, vien da pensare a certa fiction del primo pomeriggio. Per un esordio degno di interesse il distacco dal “moccismo” è condizione necessaria, non sufficiente: Diciottanni – il mondo ai miei piedi, primo lungometraggio di Elisabetta Rocchetti, ne rivendica la distanza come una missione. Il mondo (sotto) ai piedi di Ludovico è, in effetti, fetido ed escrementizio, malato di solitudine e di insostenibile vacuità. Il giovane Casanova, ricco di averi e carente di affetto, cerca invano conforto e indipendenza nel letto di donne altrettanto inaridite.
Diciamolo subito. Non faremo la disamina paternalistica su quello che avrebbe potuto essere, discettando con ipocrita indulgenza sul potenziale critico purtroppo inespresso o sul coraggio lodevole dell’autoproduzione. Il film non risente del basso costo tanto quanto è penalizzato dalla scrittura. La costruzione narrativa è piuttosto frammentaria, spesso tradotta in micro-scene che durano lo spazio di due battute e un controcampo, al solo scopo di introdurre i molteplici “affaires” del protagonista. Il risultato è una rassegna sincopata di situazioni pretestuose e mai approfondite, non di rado concluse con lo sguardo – di televisiva memoria – dell’attrice di turno turbata o contrita.
Non va meglio ai personaggi, intrappolati nel ruolo efficace ma superficiale di meschini mostri contemporanei, cui non giova l’ostentazione del dialetto di borgata: non bastano i “c***o” e gli “str***o”, elargiti a piene mani, per rendere realistici dialoghi da soap-opera camuffati da Romanzo Criminale.
Il rifiuto sbandierato dei temi mainstream non trova risposta nella messa in scena, intenta a emulare, con approssimazione, le convenzioni di quel dramma borghese-intimista che affligge da tempo gli schermi nostrani. Per quanto il collasso inevitabile di maschere e finzioni costituisca senz’altro il momento più riuscito, nonché il solo dove il messaggio si intravede oltre l’intenzione, lo slancio è subito riassorbito da un conciliante quanto improbabile happy end. Alla giovane regista auguriamo la sorte del suo beniamino: dimenticare patetiche (scene) madri, donne sull’orlo di una crisi di nervi e improvvisati re di Roma per protendere, da sola, verso un futuro certamente più autentico e – perché no? – davvero originale.