Cinemazero/Pordenone 13-17 aprile 2011
La tv del passato e la tv del presente
Un tema, tra i tanti, ha dominato la quinta edizione delle “Voci dell’inchiesta”: la televisione, archivio della memoria e nuova fonte per “fare” inchieste in un momento particolarmente urgente.
A partire dalle radici di una tv che fu, il festival ha cercato di richiamare alla mente le grandi inchieste televisive della tv di Stato, quelle di ieri e quelle di oggi poco conosciute e seguite ma altrettanto vitali e valide. Storie dell’emigrazione è un’inchiesta realizzata da Alessandro Blasetti negli anni ’70, che in cinque puntate ha ripercorso le varie sfaccettature dell’emigrazione italiana dall’Unità d’Italia alla tragedia di Marcinelle, reportage molto interessante soprattutto in questi ultimi tempi, per far ricordare che una volta gli emigrati eravamo noi e che un tempo operazioni televisive di questo tipo erano possibili. Al contributo storico di Blasetti si è poi allacciato l’omaggio fatto a RaiTre che, con l’evento inaugurale del festival, ha ricordato il lavoro di restituzione al servizio pubblico televisivo il ruolo di istituzione sociale e di strumento di promozione; è questo che ha sempre cercato di fare la terza rete statale, prima sotto la guida di Angelo Guglielmi e oggi di Paolo Ruffini, direttori di rete che hanno realizzato programmi televisivi importanti e di una sicura futura memoria. La figura di Guglielmi è stata fondamentale per, RaiTre, al tempo neonata. In appena sette anni (1987-1994) il direttore è riuscito a far salire gli ascolti di una rete nata “stanca” attraverso programmi quali Chi l’ha visto?, Samarcanda, Un giorno in pretura, Telefono giallo, Mi manda Lubrano, contenitori in cui l’inchiesta televisiva, svecchiandosi, riusciva a essere sempre più incisiva e pericolosa per i propri nemici. Un lavoro non facile quello attuato da Guglielmi, ripreso in qualche modo dall’attuale direttore di rete Ruffini, con Report, Ballarò, Presa diretta, Screensaver. Il problema sta nella sostanza, i contenuti sono mutati in peggio ma in alcuni casi c’è ancora la voglia di elevarsi dal coro mediatico. Tutto ciò fa ancora ben sperare alla luce di una televisione sempre più futile e poco interessante, è triste però pensare che il passato sia sempre più passato e che non c’è nessun tipo di sforzo nel migliorare anzi sempre più, come ricordato da Ruffini, “si lavora con le mani legate”.
Un altro momento per confrontare la televisione che fu con i rituali di quella di oggi è stato il documentario della serie Doc3 Nient’altro che questo di Giovanna Massimetti e Paolo Serbandini, che attraverso l’incidente alla miniera di San Josè in Cile ( 33 minatori imprigionati per due mesi a 700 metri di profondità), ha esaminato le forme del circo mediatico che si è creato intorno alla vicenda, riallacciandosi alla tragedia di Vermicino, la più lunga diretta televisiva della Rai (18 ore a reti unificate), analizzata dal giornalista Piero Badaloni. Nel primo caso è da sottolineare la trasformazione dei minatori da vittime a eroi, attraverso il linguaggio del reality che ne spiava le ore di angoscia attraverso delle telecamere calate nella miniera, un “Crudelity Show” che appunto ha ricordato quello subito dal povero Alfredino. In questo, si è potuto vedere come la televisione sia rimasta un’arma da guerra capace di invadere dei campi in modo crudele e sfacciato, senza poi apportare un contributo, ma sfruttando il tutto per scopi di share; un infinito reality che gioca con le vite altrui. Ma, per fortuna, la tv non è solo questo, e l’hanno dimostrato documentari come Nero petrolio, inchiesta che ha portato al festival pordenonese un lavoro realizzato da Roberto Olla per Speciale Tg1, in cui a partire da Petrolio, libro postumo di Pasolini, si racconta l’attrattiva dell’oro nero e alcune delle pagine più buie della storia italiana che ha come protagonisti personaggi scomodi come Mattei, Matteotti e Pasolini stesso, per spiegarci come da noi “il petrolio è più nero che altrove”. Olla è riuscito a esplorare alcuni dei delitti più misteriosi della nostra storia e ha scoperto nuovi elementi con cui per esempio, capire anche le attuali prese di posizione nei confronti del conflitto libico del nostro Stato.
Un’edizione, questa delle Voci, che ha saputo scavare nel passato e che si è dimostrata ottimista nei confronti dell’utilizzo delle inchieste, per riuscire finalmente a fare della vera informazione senza usare veli e senza manovre. Rimane l’amaro in bocca, però, nel sapere che questo tipo di reportage siano ancora pensati per una nicchia di spettatori; opere di questo livello dovrebbero essere innanzitutto divulgate nelle scuole e supportate con più campagna pubblicitaria. La verità è sempre scomoda.